di Luca Zorloni
Cremona, 29 agosto 2013 - La Lombardia sta diventando una gigantesca centrale. Una centrale alimentata con le cosiddette biomasse: escrementi degli allevamenti, mais, legno e rifiuti biodegradabili urbani e industriali, bruciati o fermentati per produrre elettricità ed energia termica "verdi".
Una centrale finanziata con le nostre bollette, che sono servite a rifondere, sotto forma di incentivi per le energie rinnovabili, i produttori di corrente e calore pagando l'energia quattro volte di più rispetto al suo valore. La pioggia di soldi ha fatto spuntare come funghi centinaia di impianti a biomasse nelle campagne della Lombardia. Facile riconoscerli: grossi cilindri che spezzano con il panorama agreste. Il filone aureo è quello del biogas, in cui siamo secondi solo alla Germania. E il "miracolo" è destinato a continuare, dato che il diluvio di denaro non si arresta.
L'ELDORADO BIOGAS - Quest'anno, riferisce Giuseppe Dasti, responsabile del desk energia di Mediocredito italiano (Banca Intesa), circa 150 milioni di euro sono fluiti nella nostra regione per finanziare 31 nuovi progetti di impianti a biogas. Si aggiungono alle 319 centrali censite nel 2011 dall'ente preposto, il Gestore servizi energetici (Gse).
Allora pesavano per il 26% del totale nazionale e producevano il 23% della bioenergia tricolore: 655,4 megawatt. Tra 2010 e 2011 il biogas lombardo fatto un balzo in avanti del +98,1%. E nel 2014 la marcia non si ferma: Dasti spiega che arriveranno 71 nuovi impianti, il 33% di quelli finanziati su scala nazionale. Entro Expo insomma, in Lombardia ci saranno circa 500 biocentrali. Può essere un bel biglietto da visita per la manifestazione dedicata "all'energia per la vita", ma è anche un'eredità impegnativa.
I SOLDI DALLE NOSTRE BOLLETTE - Gli impianti costruiti fino al 2012 godono infatti di un incentivo per quindici anni. La tariffa, detta onnicomprensiva, è di 0,28 centesimi a kilowattora, ovvero quattro volte il valore commerciale dell'energia elettrica. Da quest'anno si cambia, più o meno: la tariffa sarà più bassa, ma durerà per vent'anni. D'altronde, il giudizio è unanime: l'industria delle biomasse sopravvive solo grazie ai soldi pubblici. "Senza incentivi non sta in piedi, produce energia a costi elevatissimi", commenta Gianluca Pinotti, assessore all'agricoltura e all'ambiente della provincia di Cremona. Il suo territorio ha il primato delle centrali in Lombardia: 137 ne conta l'assessore.
È stato proprio l'ampio margine di guadagno garantito dalla tariffa a ingolosire molti investitori, anche esterni al settore agricolo. Una tariffa (i cui fondi arrivano dalla voce A3 delle nostre bollette) che molti definiscono "remunerativa": doveva essere una stampella all'avviamento dell'impresa, è diventata essa stessa la fonte primaria di guadagno. "Si è registrato il fenomeno dell'ingresso pesante della finanza", osserva Andrea Calori, ricercatore del dipartimento di Agraria del Politecnico di Milano.
Per i manager di piazza Affari e dintorni però, il biogas non è stato una scampagnata. Piuttosto un rally indiavolato, che non per tutti si è concluso bene. "Non è un investimento avulso dall'attività zootecnica e cerealicola", aggiunge Dasti. E quando le tariffe finiranno, cosa succederà? L'assessore all'Ambiente della provincia di Mantova Alberto Grandi paventa il rischio che "le finanziarie abbandonino gli impianti". Invece per Pietro Colucci, amministratore delegato della società di rinnovabili Kinexia, il vantaggio di 15 anni di contratto ha permesso di stabilizzare le imprese agricole, impedire che le campagne si spopolassero e creare un indotto per le imprese locali.
LA CORSA ALLA TERRA - Nel frattempo, il legislatore è intervenuto per raffreddare la febbre da biogas. La nuova tariffa, in vigore da quest'anno, premia impianti più piccoli, sotto i 300 kilowattora, con un bonus per chi usa i sottoprodotti di scarto dell'industria alimentare e abbatte l'azoto (in ottemperanza alla direttiva nitrati dell'Unione europea). Secondo Colucci renderà circa 0,17-18 centesimi a kilowattora.
Resta però quanto costruito finora con i vecchi incentivi che premiavano le taglie large. Si tratta per lo più di impianti da un megawatt, che digeriscono fino a ventimila tonnellate di biomasse per funzionare. Escrementi e scarti industriali non bastano, così si è scatenata la corsa alla terra per accaparrarsi appezzamenti su cui coltivare mais e segale da bruciare. I cereali sono passati dalle mangiatoie degli allevamenti alla dieta dei biodigestori, i fermentatori dove la macerazione delle biomasse provoca la proliferazione di batteri che, a loro volta, producono il gas. "E alle volte ci mettono anche farina e, se c'è poca energia, il glicerolo", sottolinea il professore Michele Corti, docente di zootecnia montana all'università degli studi di Milano e gestore del blog "Sgonfia il biogas", che la dice lunga su quale sia la sua posizione.
BRUCIATI QUINTALI DI "CIBO" - Una delle tesi del partito anti-biomasse è che in Italia si siano sacrificati la terra fertile e i suoi frutti per inseguire il biogas e soprattutto i suoi lauti incentivi. Giovanni Carrosio, sociologo dell'università di Trieste, osserva che "stiamo assistendo a un depauperamento dei terreni fertili. Oggi si coltiva mais per il biodigestore e si importa quello da dare da mangiare agli animali. E si continua a cercare nuova terra".
Dati del Politecnico di Milano (marzo 2013) rivelano che nel 2010 il 30,9% dei 234.294 ettari coltivati a mais in Lombardia era destinato al biogas. L'assessore mantovano Grandi conferma: "C'è stata una distorsione della vocazione dei campi: dove si produceva frutta ora si pensa a coltivare mais. Si calcola un 20-30% di incremento del prezzo". Visto che tra il 2007 e il 2009 il prezzo del cereale era precipitato, da 25 a 12 euro al quintale, per Ildebrando Bonacini, vicedirettore di Confagricoltura Cremona (che ha tra i suoi affiliati perlopiù produttori di mais), l'uso dei campi ai fini energetici è "legittimo". Anzi, c'è chi ci vede, come Dasti, un'opportunità per integrare il reddito agricolo.
AFFITTI ALLE STELLE E CASE IN CADUTA LIBERA - Sicuramente si è integrato il reddito di chi affittava la terra. Perché a forza di cercare nuovi campi per coltivare "carburante", gli affitti fondiari in Lombardia sono esplosi. Secondo la banca dati dell'Istituto nazionale di economia agraria (Inea), nel 2011 nel Cremonese un ettaro di terra per la fornitura di biomasse era affittato a 1.300-1.400 euro, una locazione superiore ai mille euro massimi per un seminativo. Già nel 2010 Coldiretti Cremona aveva puntato il dito contro quest'impennata dei valori fondiari. Scriveva il direttore Simone Solfanelli: "Quando vediamo mega-impianti del tutto scollegati alle reali potenzialità produttive aziendali e sappiamo che quella struttura per funzionare ha bisogno di materiale vegetale che non è possibile produrre nell'azienda che realizza la centrale, ci preoccupiamo".
Ci sono voluti tre anni perché cambiasse qualcosa. Solfanelli si chiedeva cosa potesse fare la politica. Pinotti risponde: "Se la legge lo permette e l'ente dice no, avremmo rischiato di essere portati sempre davanti al Tar". Ma c'è di più. Le province rischiano di non avere neanche il polso di quanti impianti siano realizzati sul proprio territorio. Per quelli di piccola taglia infatti, basta il via libera del Comune. Così ogni campanile decide per sè. E si finisce come a Cavernago dove, racconta il portavoce del comitato locale F9 (poi diventato movimento regionale "No biomasse Lombardia") Adriano Carolo, "abbiamo quattro centrali in sette chilometri quadrati". Non è una questione di panorama, nè di odori ("sono praticamente a zero", spiega Colucci). I comitati lamentano l'incidenza in negativo sul prezzo delle case: meno 30% del valore per quelle a ridosso delle centrali, afferma il professor Corti.
IL GIALLO INQUINAMENTO - Poi l'inquinamento. Un'energia verde che sporca? Un paradosso. Eppure secondo Corti dai camini delle centrali a biomasse escono "formaldeide, idrocarburi policlinici aromatici, una piccola percentuale di diossina". "Sono il frutto delle reazioni post camino - spiega -. I motori hanno limiti per le polveri totali, il Pm50, categoria eccessivamente generica, perché le emissioni che fanno male sono Pm10 e Pm2,5". "Sulla soglia del megawatt inquinano come un camion che fa centomila chilometri l'anno", rincara l'assessore Grandi. E dato che l'autorizzazione viene riconosciuta al singolo impianto, aggiunge Carolo, "non conosciamo il cumulativo inquinante di questi impianti".
Infine c'è il giallo dei batteri. I processi del biodigestore, spiega Corti, arricchiscono gli scarti di spore e clostridi, che finiscono nel terreno quando il materiale viene sparso come compost. Si rischia insomma di contaminare con nuovi batteri i terreni già piagati da fertilizzanti e insetticidi usati in massa per far crescere i cereali da bruciare.
Lo scorso giugno nella commissione agricoltura del Pirellone i consiglieri regionali del Pd Marco Carra, Agostino alloni, Giuseppe Villani e Corrado Tomasi avevano chiesto che il mais contaminato dalle aflatossine, generate dalle muffe provocate dalla siccità del 2012, fosse destinato all'uso energetico. I chicchi cancerogeni finirebbero così nelle centrali, dove la qualità del cereale passa in secondo piano. D'altronde, la grande centrale d'Italia non si può spegnere.
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