Lecco, 1 agosto 2012 - Un tuffo da diciotto metri, come saltare dal tetto di un palazzo di sei piani. L’impatto con l’acqua avviene a circa 30 chilometri orari, basta un nulla perché la superficie da liquida diventi come solida, dura come il cemento. Eppure l’ebbrezza di lanciarsi nel vuoto con l’illusione che nulla possa accadere ogni estate richiama decine e decine di impavidi, giovani. Soprattutto, ma non solo, su scogliere, pontili, viadotti, strade a strapiombo sul Lario. Lo sa bene Matteo S., 20 anni, brianzolo di Triuggio, uno dei tanti che ha subito il fascino dell’altezza offerta dalla provinciale che attraversa Abbadia, a picco sul lago. Con i suoi amici non ha resistito alla tentazione di filmare l’impresa e condividerla con tutti su YouTube.

Non sa nemmeno lui perché lo ha fatto. Oggi dice: «Non lo farei mai più, ho sbagliato, sconsiglio a tutti di farlo». L’ha fatto forse per sfida personale, oppure per non essere da meno degli altri della compagnia, o semplicemente per provare. «Gli istanti che precedono il tuffo sembrano non trascorrere mai e fino all’ultimo ho provato l’istinto di fermarmi. Ma quando ormai sei in aria è impossibile tornare indietro». Poi quel brivido del volo, anch’esso interminabile, che ti prende allo stomaco: «È una sensazione stranissima, impossibile da descrive, simile a quella che si prova sulle attrazioni dei parchi di divertimento, ma molto più forte perché sai che non disponi di alcuna protezione». Quindi l’ingresso in acqua.

«È la parte più brutta, perché dolorosa; io sono caduto in maniera scomposta e mi sono fatto male, non tanto, ma ho avvertito un forte colpo». Infine la risalita a galla che pare non avere fine perché la corrente sembra trascinarti ancora più. Sapeva che era proibito, che era pericoloso, ma non gli è importato. «Da solo non l’avrei fatto, ma con il gruppo non potevo tirarmi indietro. Eravamo consapevoli che non avremmo dovuto tuffarci da lì, in fondo però si è trattata di una semplice ragazzata». Se gli si ripresentasse l’occasione tuttavia la prossima volta si chiamerebbe fuori, perché il ricordo che resta è la paura. Paura pura. La paura di farsi male e di non potere assolutamente nulla quando si è in volo per scongiurare il peggio se qualcosa dovesse andare storto. «Io non ci proverò mai più e dopo essermi tuffato mi sento di sconsigliare a tutti di farlo. Chi ha posto i divieti è stato saggio».

Ma i sindaci che hanno firmato le ordinanze e bandito i salti dalla maggior parte della alture del Lario sanno bene che non servono a molto. «Le regole servono solo per chi le rispetta - commenta Vito Zotti, primo citatdino di Lierna, altra località ambita per i tuffatori amatoriali -. In molti, probabilmente la maggioranza della gente, si attengono alle indicazioni, ma altri continuano a ignorarle». Come la 19enne moldava che domenica si è sfigurata il volto contro gli scogli lanciandosi dalla spiaggia di San Martino, sempre ad Abbadia, nonostante quel tratto sia un cantiere recintato.

«C’è sempre chi vuole trasgedire alla norme, è stata persino tagliata la recinzione per agevolare l’accesso nell’area vietata - spiega il sindaco Cristina Bartesaghi -. Mi auguro che almeno quello che è successo serva da monito». Anche perché il Lario non è il mare, sul fondale si trovano i sassi, non la sabbia. E oltre alle scogliere occorre prestare attenzione ai mulinelli, che non si vedono, ma ci sono e quando ti prendono non ti lasciano più.

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