Milano, 9 agosto 2012 - «Non ero mai entrata in un bar prima di quella mattina. Saranno state le 8 e ho chiesto un cognac. Mia sorella Giovanna, tre anni più di me, mi ha detto: “Ma Lucia, cosa fai?”. E io le ho risposto “senti, sto proprio male, mi fa male lo stomaco”». Quel cognac era costato 9 lire, il 10 agosto del 1944. «Ero stata appena assunta in una ditta di Precotto, la busta paga era di 350 lire al mese. Io e mia sorella dovevamo prendere il tram che partiva proprio all’inizio di viale Monza, quel bar era davanti alla fermata». Poco più di un’ora prima, nella casa dove vivevano, in viale Abruzzi 82, una vicina le aveva svegliate: «Ho sentito degli spari, dicono che hanno ammazzato delle persone in piazzale Loreto». Tra la casa di Lucia D’Ambrosio, allora ventenne, e la piazza principale d’accesso e d’uscita del capoluogo, ci sono duecento metri. «Ho detto a mia sorella: andiamo a vedere. Non so perché, forse per curiosità. Non l’avessi mai fatto».
All’angolo con via Andrea Doria, ammucchiati, c’erano 15 corpi crivellati di colpi. «Non è per il sangue che mi sono sentita male. Credo sia stato perché quei ragazzi erano uno addosso all’altro, buttati lì come stracci».
Alle 4 di mattina di quel 10 agosto, 15 detenuti di San Vittore, tutti arrestati per militanza antifascista, erano stati radunati con l’inganno: trasferimento in un campo di lavoro in Germania. Invece li misero contro una staccionata e gli spararono addosso senza dire una parola. La piazza non era stata scelta a caso: quasi di fronte alla casa di Lucia D’Ambrosio, in viale Abruzzi 77, alle 8 di mattina di due giorni prima erano esplosi due ordigni collocati sotto un camion tedesco.
L’autista riportò lievi ferite, invece morirono 6 passanti e altri 11 rimasero feriti. Nemmeno quel luogo era stato scelto a caso da quello che venne definito, dai tedeschi, un atto terroristico: il camion era parcheggiato a pochi metri dall’hotel Titanus occupato dalle Wehrmacht (le forze armate tedesche).
I partigiani si dissociarono subito dall’attentato: perché avrebbero dovuto uccidere passanti inermi (italiani) senza colpire nemmeno un nemico tedesco?
Di sicuro quell’atto si rivelò utile per una rappresaglia. A sparare sui 15 arrestati per antifascismo, furono i militi del gruppo Oberdan (Porta Venezia), corpo della Repubblica Sociale di Salò che aveva obbedito a un ordine del capitano delle Ss Theodor Saevecke, colui che si meriterà per sempre l’appellativo di boia di piazzale Loreto (nel 1999 è stato condannato all’ergastolo dal Tribunale militare di Torino) e nessuna condanna in patria.
Saevecke era il terrore di Milano e Lombardia da oltre un anno. Che fosse un aguzzino crudele si sapeva dalla strage dei 56 ebrei sul lago Maggiore, ma che arrivasse a tanto in piazzale Loreto, i milanesi non poterono imnmaginarlo. E non lo accettarono né allora né negli anniversari a venire.
I corpi dei 15 martiri vennero lasciati esposti fino alle 20 e definiti «spazzatura» dai fascisti a guardia. Il macabro spettacolo doveva servire da monito: «Noi quella sera non siamo nemmeno tornate a casa. Siamo andate a Lonate Pozzolo dove la mia famiglia era sfollata - ricorda Lucia D’Ambrosio, oggi 88 enne - ero ancora scioccata». Lucia e sua sorella non vedono quanto accaduto in quel giorno caldo: le mosche si accanivano sui corpi, i fascisti impedivano a familiari dei morti di far loro una carezza e invece incitavano, armi in pugno, i pendolari che arrivavano a Milano o da lì partivano per tornare a casa, a fermarsi e guardarli bene, perché fosse chiaro che gli assassini erano i partigiani, non loro. Anche il poeta Franco Loi, allora bambino, vide quei corpi: «Fu come una vertigine».
Le donne svenivano, i volti dei milanesi forzati all’orrore erano pietrificati. Il capo della Procincia di Milano Piero Parini chiese spiegazioni di quella carneficina al comando delle Ss: «Abbiamo applicato gli ordini di Kesselring, dieci ogni uno». Ma non era morto nessun tedesco nell’attentato al camion, e Kesselring non aveva dato nessun ordine. Appena lo seppe, il cardinale Shuster divenne furibondo e fece pressioni tali per togliere quei corpi dal marciapiede che finalmente, alle 20, lo spettacolo finì.Il 29 aprile 1945, quando Mussolini e i 16 gerarchi fascisti finirono appesi nello stesso punto di quella piazza, Lucia D’Ambrosio non andò a vederli.
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