di Philippe Daverio
Milano, 1 settembre 2012 - In mezzo a tanti ricordi seri e affettuosi per la scomparsa di un uomo che sicuramente fu grande, permettetemi il diritto alla frivolezza che dinanzi alla morte ha una sua legittimità umana. Ho frequentato sua Eminenza con una certa regolarità quand’ero assessore a Milano, alla fine del secolo scorso. Mi colpì subito un suo formidabile ossimoro: «L’eleganza frugale». Capitò spesso d’incontrarci più di una volta nella stessa giornata, e notai, anzi mi permisi addirittura di dirglielo, che fra mattino e pomeriggio s’era cambiato d’abito. Addirittura mi capitò una volta, quando lo invitai a una visita privata notturna in Palazzo Reale della mostra che avevamo organizzato assieme sulla famosa collezione del cardinal Monti, quello dal quale nacque il corpus iniziale delle raccolte Braidensi, che lo vidi arrivare dopo cena in un severo clergyman che portava da autentico cosmopolita.
Quella sera, dopo uno scambio di battute sulle raccolte artistiche dei cardinali del passato, gli vidi il più mondano e ironico dei sorrisi. Eppure nella giornata aveva svolto, in abiti diversi e in luoghi diversi, le funzioni diverse che il
suo complesso ministero gli imponeva. Ed è lì che scoprii l’equilibrio frugale delle sue eleganze, che erano in realtà frugali eleganze del suo spirito. Cominciai a capire la sottile abilità d’un’eloquenza tutta sua che riusciva con parole semplici a tenere vive le articolazioni d’un pensiero estremamente complicato, rendendole di comprensione immediata e tangibile a chi lo ascoltava. Ho ritrovato poi lo stesso stile nei suoi scritti, sia nei libri che negli articoli.
In questo senso, portava egli nel Ventesimo secolo l’abilità retorica della Scolastica, laddove forma e contenuto non si distinguono ma sono imprescindibilmente legati. Mi capitò successivamente, benché io non sia frequentatore regolare della funzione religiosa, di sentire gli interventi dei suoi parroci nei vari momenti delle loro prediche. Mi aveva colpito la mutazione linguistica di questi uomini vicini al popolo della Ecclesia che da un linguaggio che trent’anni prima reputavo essere quello di don Abbondio s’erano mutati in oratori capaci di essere capiti, semplici nella forma e densi nel contenuto. E lì mi si rivelò la qualità maggiore del cardinal Martini come amministratore e formatore della sua diocesi. Era riuscito a trasferire la sua «eleganza frugale» ai prevosti della Lombardia.
Poi ci perdemmo di vista. Lo ritrovai in occasione della cerimonia solenne che Milano gli dedicò in Duomo per il genetliaco del suo cardinalato, quando si era già ritirato in Palestina. Fu commovente quella cerimonia, con la
sua deambulazione finale in mezzo ai fedeli, e un applauso di venti minuti. Aveva tanto di teatrale, ma come nel teatro vero tanto di autenticamente commosso, e mi ricordai allora d’uno dei più bizzarri incontri che mi capitò di favorire durante i miei anni di vita pubblica milanese: l’incontro fra Giorgio Strehler, sonoro miscredente, e il cardinale convinto ecumenico. Quando li presentai l’uno all’altro mi permisi una battuta impertinente: «Eminenza, mi auguro che da questo momento Giorgio non voglia diventare cardinale ed Ella non si faccia regista». Sbagliavo, perché era già Martini un regista eccellente all’interno di una città distratta e spesso priva d’obiettivi.
La sua era la regia articolata, sottile, ancora una volta «elegante frugale» del dialogo tra gli uomini di buona volontà. Ed è così che lo voglio ricordare. E ho l’ambizione di desiderare che altri lo ricordino così, come un uomo del dialogo, un uomo che nell’omelia che fece proprio in quell’occasione del genetliaco, e che tutti pensavano durasse un tempo di protocollo mentre durò, amplificata in piazza, quasi un’ora, lanciò l’ultimo segnale, e cioè che non contava la contaminazione tra le culture, i linguaggi e le fedi, contava l’autentico contagio.
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