di Giulia Bonezzi e Agnese Pini
Milano, 13 maggio 2013 - Quando il lupo ha fame, della paura se ne frega, e anche della prudenza che gli ha regalato l’istinto. Diventa sanguinario e spavaldo, esce dal bosco e arriva fin quasi sotto le case. Dove basta allungare una zampa, fare un balzo e azzannare. La tana del mostro di Niguarda è un cantiere abbandonato da anni, all’angolo tra via Passerini e via Ornato. Un casermone di cemento circondato dai ponteggi, in fondo a un grande spiazzo in cui l’erba è cresciuta selvaggia facendosi largo fra scampoli d’asfalto ormai corrosi. Mada Kabobo si è accampato lì solo da un paio di giorni, nessuno nel quartiere ha notato questo ragazzo di 31 anni che non si può certo definire un marcantonio, col suo metro e 76.
Nel casermone non può essere visto, perché entrare è facile, ma nessuno si avvicina in un tugurio del genere senza un motivo preciso: finestre e porte sventrate, nei corridoi umidi si trovano vanghe, badili, carriole lasciate lì chissà da quanto. E picconi. Ed ecco la ricostruzione delle ultime ore del killer, fatta per la prima volta dal paziente lavoro dei carabinieri della compagnia di Porta Monforte insieme agli uomini del Nucleo operativo e della Stazione di Greco Milanese.
Piove di brutto a Milano, nella notte di venerdì, senza tregua, almeno fino alle 2. Ma Kabobo non ha fretta. Ha passato praticamente tutta la giornata dentro la sua tana, aspettando il buio e sorpreso poi dalla pioggia. Forse ha già progettato di uccidere? Dalla sua posizione domina il quartiere: palazzine basse, fisionomia operaia popolare, quasi intima. Via Passerini, via Terruggia, via Grivola, via Monte Rotondo, via Adriatico. È la mappa della morte disegnata da Kabobo senza un piano preciso, come il lupo cacciatore che quatto attende le sue prede. E colpisce solo quando sa di andare sul sicuro. Non è il raptus di un momento quello che ha guidato il mostro. No. Kabobo è lucido. Nelle telecamere che lo cristallizzano non impreca. Non fiata. Procede con la determinazione di un killer, si accanisce sulle vittime con la stessa calcolata freddezza.
La mattanza ha un’orario di inizio preciso. Le 4 e un quarto, non è ancora l’alba. Mada esce dalla sua tana, è digiuno e non dorme da giorni. Lo dirà lui stesso ai militari. Anzi, saranno le uniche parole che sarà in grado di pronunciare: «No mangiare, no dormire». E ancora: «Fame». La fame, dunque. Possibile? Kabobo è il lupo che va a caccia. Esce dal cantiere-rifugio, imbocca via Ornato, si dirige verso la Coop, pochi metri più a Nord. Qui, sul marciapiede, trova la sua arma: è l’asse di ferro giallo divelta da un dissuasore di parcheggio. Servirà per colpire la prima vittima, Andrea Carfora.
Sono le 4,30: via Terruggia è una traversa sulla sinistra. Kabobo sferra un colpo di spranga, lo prende sul braccio. Andrea scappa, una corsa folle fino a casa. È salvo. Il lupo ha fallito: la sua arma è troppo blanda. Ne ha la conferma poco dopo, ai giardini Galeotti Bianchi. Qui, alle 5, incontra Giuseppe Quatela a spasso col cane: lo minaccia, il cane fiuta il pericolo, abbaia, Quatela si difende, lo insulta. Il killer capisce che la spranga è inutile, difficile uccidere con quella. La scaglia su una panchina con rabbia e la abbandona nel parchetto. Deve procurarsi qualcosa che non lasci scampo. È allora che decide di tornare nella tana.
Ricorda che lì, nel cantiere abbandonato, può trovare ciò che cerca. Entra nel casermone, primo corridoio, piano terra: il piccone. Per uccidere con un piccone bastano 20 secondi. Tanti gliene sono serviti per ammazzare Alessandro Carolè. Ma prima Kabobo incontra, e ferisce, altri due uomini: Francesco Niro, colpito alla testa, è il primo. Saggia l’arma, Kabobo, vede come può maneggiarla. Una specie di allenamento. E infatti lascia fuggire Niro, che si trascina fino a casa in via Monte Grivola, tramortito e sanguinante. Ma vivo.
Il lupo cammina rasente muro, imbocca via Paulucci Fulcieri ancora deserta e arriva in via Monte Grivola, anche lui. Trova Antonio Morisco, sono le 6. Lui sta entrando a casa, il killer lo bracca, sferra il piccone, quasi lo sfiora, ma la sua preda è più veloce: sbatte il portone. È salvo. Il killer accumula rabbia e determinazione. È in via Adriatico, adesso, e in fondo alla strada vede Ermanno Masini. Kabobo lo prende di spalle, questa volta non vuole sbagliare, non ha pietà. Lo colpisce alla nuca, lo tramortisce, e poi gli si avventa contro continuando a sferrare picconate sulla schiena. Lo riduce quasi in fin di vita. N
on basta. Alle 6,25 è in piazza Belloveso: Alessandro Carolè prende un caffè seduto al tavolino del bar Delrosso. Stessa dinamica: il primo colpo alla testa, ancora una volta di spalle, il corpo che si accascia a terra, e lui che si accanisce. Il lupo affamato fruga fra gli indumenti pieni di sangue, ruba un cellulare. L’ultimo sfregio alla vittima inerme. Passano solo cinque minuti da quella morte all’ultima, orrenda aggressione. Via Monte Rotondo, 6,30. Tocca a Daniele Carella, il più giovane, 21 anni appena. Kabobo vede il ragazzo sul marciapiede davanti al civico 21. È l’assalto più cruento. Le picconate continuano mentre lui è già accasciato sull’asfalto. L’arma non perdona: bastano pochi colpi. Per braccare il lupo ci vogliono altri cinque minuti: i carabinieri lo trovano in via Racconigi. Lui non fa resistenza. Il piccone a pezzi. «Fame», dice lui, dopo aver ucciso un uomo e ridotto in fin di vita altri due. Solo: «Fame».
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