ESCE in libreria «Creature Simili, il dark a Milano negli anni ‘80 (Agenzia X)», libro inchiesta della giornalista Emanuela Zuccalà e di Simone Tosoni, sociologo dell’Università Cattolica, sulla nascita e sull’evoluzione della controcultura ombrosa e non violenta che si sviluppò, quasi come un anticorpo, nella luccicante Milano da bere.
Redatto attraverso ventiquattro interviste a ex giovani che scelsero quel look e quel profilo, anche mentale, il libro analizza per la prima volta in Italia, una delle più trascurate subculture urbane degli anni Ottanta, ai margini di fenomeni come quello punk, l’entusiasmo borsistico degli yuppies o i piumini da non togliere neanche in casa dei paninari, che si guadagnarono tutt’altra visibilità.
Dal Leoncavallo a discoteche come l’Hysterika e il Viridis, dalle periferie ai ritrovi come la Fiera di Sinigaglia, dagli scontri con paninari e skin alle trasferte verso i Funeral Party, le parole e i racconti degli intervistati regalano ai lettori panoramiche sulla Milano schizofrenica dell’ultimo decennio in cui l’economia e l’ottimismo continuarono a crescere senza un reale substrato produttivo. E rivelano quanto il dark di allora abbia influito sul contemporaneo. Il libro, presentato già il 15 novembre, ha aperto anche un’omonima pagina su facebook, che in pochi giorni, nel consueto basso profilo della generazione osservata, ha già raccolto senza troppo clamore un migliaio di fan. Uno stile controcorrente già palese dal sottotitolo del libro: «Mentre il punk urlava fuori, il dark urlava dentro».
Milano, 26 dicembre 2013 - Non c'è luce senza ombra. Nel mondo fisico, ma anche nel meteo sociale. E non c’è quindi epoca con toni dominanti che, dal dopoguerra, non produca gli anticorpi di una controcultura giovanile. Li sceglie una minoranza di adolescenti per differenziarsi, con la propria musica, le proprie letture e le proprie icone. Il lato oscuro della Milano da bere, accanto ai più noti skin, metallari, yuppie e paninari, fu il fenomeno dark. Dark era il nome italiano del movimento gotico nato nel Regno Unito dalla scena post-punk. Ma a Milano i ragazzi vestiti di nero assunsero storia e personalità propria, oggi indagate in «Creature simili», il libro di Emanuela Zuccalà e Simone Tosoni.
Come è nata l’idea?
«In quegli anni - racconta Emanuela - Simone e io eravamo gli unici due dark nella cittadina di provincia lombarda in cui siamo cresciuti. Quando ci siamo ritrovati da grandi questo lavoro di ricerca ci è venuto quasi naturale. In quel periodo scintillante di ottimismo c’era una grande ossessione per l’apparenza. E il disagio verso quel modello non ci ha mai abbandonati, proprio come oggi non riusciamo ad allontanarci dal nero. Simone aveva iniziato una ricerca sociologica sul dark negli anni ’80, ma non voleva farne un libro accademico. Così ho accettato il suo invito. Siamo partiti con entusiasmo, anche per capire che senso avesse avuto quell’esperienza. Intervistando 24 persone, tra Milano e provincia, che hanno vissuto quella scena e raccontano le loro esperienze, poi suddivise per temi, musica, moda, locali. C’è anche un capitolo sul sesso e uno sulla droga».
I dark non si drogavano però.
«No, erano tendenzialmente regolarissimi, per quanto trasgressivi nel look. Era il periodo in cui l’eroina aveva già fatto parecchi morti e ci si teneva distanti. ne emerge lo spaccato inedito di una Milano che appare ormai preistoria, in cui esplodevano ricchezza e benessere. Il culto dell’apparenza dominava le relazioni, bisognava sempre essere ben vestiti, anche a costo di una forte omologazione».
Avevate dei nemici?
«I dark dark detestavano la violenza. Anzi, le prendevano un giorno dagli skin e l’altro dai paninari. Uno dei nostri intervistati racconta di essere stato accoltellato dai paninari e di avere preso grandi schiaffoni dagli skin, senza mai reagire, perché non era nelle sue corde. Il loro opporsi a una società edonista era tutto nell’immagine, allora scioccante: oggi piercing e tatuaggi sono diffusi, non ci si scandalizza di alcun tipo di look, ma allora quando arrivavo a Milano con i capelli cotonati, piena di cinghie e di spille da balia nelle orecchie, mi fermava sempre la polizia per chiedermi i documenti».
Cosa è cambiato?
«Nel libro c’è poi tutta una mappatura dei locali in cui si andava, con l’asse alternativo che andava dalle Colonne di San Lorenzo al Duomo, e viceversa. Oggi si vede ancora qualche darkettone, ma in pochissimi locali. La musica con gli anni ‘90 è cambiata, diventando molto più rumorosa, e i locali si sono adeguati. Il look? Negli anni ‘80 era molto asessuato, le donne vestivano in modo maschile, per opporsi al duplice cliché della donna manager o della maggiorata da Drive In. Non esistevano corsetti, pizzi, minigonne, balconcini».
E negli anni ’90 che succede?
«Il look femminile del dark si ibrida molto con il fetish e le donne cominciano a vestirsi in modo molto provocatorio. Ma soprattutto, non essendoci più una cultura dominante cui opporsi, scompare anche la subcultura. Il dark ha lasciato però un segno vivido nella moda “ufficiale”. Ci sono stilisti che, già a partire dagli anni ‘90, hanno ripreso le croci, il nero, le reti, e tuttora persiste un revival di questi elementi. Lo spiega bene uno degli intervistati, che oggi fa lo stylist. Basti pensare ai foulard con i teschi, che si vedono oggi al collo di ragazzine ben vestite».
La musica?
«Cure, Bauhaus, Joy Division e altri. Dalla musica si passava con naturalezza alla letteratura e al cinema di genere. Un esempio: la canzone dei Cure “Killing an Arab” citava “Lo straniero” di Camus. Gli Siouxsie and the Banshees citavano Poe o gli stessi Cure Kafka. Noi tutti abbiamo letto Sartre a 15 anni. Poi magari ci si iscriveva a filosofia, scegliendo studi ispirati da quel mondo».
I vostri eredi? Gli Emo?
«No. Noi avevamo una gran voglia di vivere e ci sentivamo realizzati in spazi pubblici. Loro sembrano ripiegati su se stessi».
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