José Cura: Milano per me è città epica, il simbolo della dura lotta per affermarsi nella vita

"Milano appare ostica al primo approccio, mentre ti rivela il suo cuore profondo solo se ti impegni a cercarlo" di Massimiliano Chiavarone

José Cura

José Cura

Milano, 16 maggio 2015  -  «Milano è una città epica: la sfida, la lotta per affermarsi, mentre intorno c’è pioggia, traffico, difficoltà materiali e organizzative da affrontare». Lo racconta il tenore José Cura, uno dei nomi che domina il panorama lirico internazionale, ma presente nei cartelloni dei teatri anche come direttore d’orchestra e regista.

Insomma lei è un musicista versatile, che ha dato impulso alla sua carriera internazionale proprio a Milano. E’ così? «Sì, sono arrivato in Italia nel 1991 per un duplice motivo: per ritrovare le mie origini, perché mia nonna era di Santo Stefano Belbo, in provincia di Cuneo e per cercare lavoro. Cominciai a girare le agenzie liriche alla ricerca di audizioni. Ma nessuno mi dava credito. Decisi di giocare un’ultima carta: avevo con me il telefono del maestro di canto di un artista del teatro Colón. Era il tenore Fernando Bandera. Lo chiamai e mi diede appuntamento a Milano. Quando arrivai in questa città era aprile e pioveva a dirotto».

E così comincia la sua epopea? Lei che sfida le forze avverse a partire dal maltempo? «Sì, anche se a distanza di anni io stesso ci scherzo, fu davvero l’inizio di un’epopea. Il maestro Bandera dopo avermi sentito, mi disse: “Bravo, lei ha una voce importante”. Poi mi chiese quali fossero i miei progetti e io gli risposi che non ne avevo perché dovevo tornare in Argentina. Allora lui di rimando: “Lei non va da nessuna parte!”. Così mi procurò il mio primo agente, era Alfredo Strada».

Trovò il lavoro? «Non subito, perché Alfredo mi disse che la mia voce necessitava di qualche messa a punto soprattutto stilistica e mi procurò anche un maestro di canto, Vittorio Terranova, che mi diede lezioni gratis dal 1991 fino a metà del 1992. Fu un atto di generosità incredibile che mi diede la forza per andare avanti».

Quando scoprì che poteva cantare l’opera? «A 20 anni. Studiavo in Argentina direzione orchestrale e composizione. Canto era una materia complementare. Il  rettore dell’università mi sentì cantare e mi disse di coltivare la voce, così avrei affinato anche le mie doti direttoriali. Seguii il suo consiglio e scoprii che potevo diventare un tenore».

A distanza di tanti anni per lei Milano cos’è? «E’ la città in cui ho preso confidenza con il mio lavoro, ma anche un luogo che per me resta in parte sconosciuto. Milano appare ostica al primo approccio, mentre ti rivela il suo cuore profondo solo se ti impegni a cercarlo. E scopri autentiche bellezze come il complesso di San Maurizio, comprendente il Civico museo archeologico a cento metri dalla via Camperio».

La via milanese che preferisce? «Sì, capitai per caso in quella strada per la prima volta nel 2011. Avevo bisogno di un albergo durante il periodo in cui cantai “Pagliacci” alla Scala e la ricerca andò a buon fine:  trovai un hotel che mi assegnò una stanza mai prima affittata, perché appena ristrutturata. Da allora ogni volta che torno a Milano alloggio nello stesso posto e mi danno la stessa camera. Passeggiando lungo la via Camperio mi sembra di tornare nella Milano del passato, di quando era un borgo attraversato da piccole strade. E’ una via particolare, che sento famigliare forse anche per la vicinanza con il teatro Dal Verme dove ci fu la prima dei “Pagliacci” nel 1892».

A proposito di teatro, qualche volta il pubblico milanese della Scala non è stato molto gentile con lei. Quale spiegazione si è dato? «Non posso associare tutto il pubblico a quattro maleducati. Né posso dire che “ce l’abbiano solo con me”. Questa gente che contesta prende di mira quelli che possiedono una personalità e non mostrano ossequio per timore dei fischi.  Alla Scala hanno "beccato" tanti artisti,  perfino la Callas. I fischi fanno parte della storia di quel teatro, sono oramai più che una manifestazione di dissenso, un’espressione che ha a che fare con il folclore del Piermarini».

Quando tornerà a Milano per cantare? «Non ne ho idea. Dopo più di due decenni di carriera, trovo piacere a esibirmi solo in posti dove il pubblico mostra rispetto. La gavetta l’ho già fatta! Peccato, perché la Scala, come teatro operistico che accosta più eccellenze tra orchestra, coro e strutture tecniche è davvero notevole».

di Massimiliano Chiavarone mchiavarone@yahoo.it