Sesto San Giovanni, 17 maggio 2011 - «Attenti alle trappole», dice Giancarlo Consonni, guardando alle ex Falck. Perché in un milione e mezzo di aree dismesse di trabocchetti ce ne sono eccome. Si può cadere nel tranello di considerare Sesto solo una città-fabbrica, di andare «al rimorchio dei privati», di creare «affastellamenti edilizi» e di confondere urbanistica, disegno urbano e architettura.
Professore di Urbanistica alla Facoltà di Architettura civile del Politecnico, Consonni è anche fondatore e presidente della Fondazione Piero Bottoni, dedicata all’urbanista che dal 1962 al 1973 provò a «fare città» a Sesto San Giovanni. Dai forni delle acciaierie al sistema verde, Consonni è tornato oggi sul «luogo del delitto» con una mostra che ha inaugurato l’Urban center sestese: le ex Falck ripensate dai suoi studenti. Quattro anni a spasso per le aree dismesse più grandi d’Europa.
Che esperienza è stata?
«Una sfida eccezionale. Non abbiamo mai affrontato problemi di questa portata per dimensione e per rilevanza. Si rimane sgomenti».
Cosa significa “Fare città oggi”?
«Recuperare il senso dell’abitare condiviso, i rapporti di prossimità, realizzare ambiti a forte impronta colloquiale».
Altrimenti?
«Le città si degradano a informi agglomerati insediativi, con affastellamenti di oggetti edilizi. Il problema è che negli ultimi decenni di città se ne è fatta poca».
Sesto oggi è città?
«È una città incompiuta. Bottoni ci ha provato, realizzando un’acropoli simbolica, un cuore urbano e un anello verde che collegava le ville storiche. Non è riuscito a unire la periferia di Cascina Gatti: la sua strada vitale è diventata un’arteria di traffico senza attività».
Il progetto di Renzo Piano può ricucire le zone che non dialogano?
«Siamo di fronte a un grandissimo architetto, ma a un medriocre urbanista».
Ci spieghi.
«Mancano fulcri e tramiti vitali. Le torri alte creano relazioni a distanza, che rivelano la sfiducia per quelle al suolo. Il suo è un verde extra urbano, mentre è proprio attorno al parco che deve nascere la città. Va a creare un’altra Sesto, una Sesto2».
L’operazione da fare qual è?
«Togliere e non aggiungere. Altrimenti le quantità entrano in collisione e il progetto di città fallisce. Si tratta di dare a Sesto un’armatura forte, una rammagliatura con il tessuto esistente».
L’armatura aspetta di essere indossata o è da costruire?
«È già disegnata nelle tracce della città. Per chi fa disegno urbano oggi è impossibile pensare nuovi monumenti. Sesto li ha già: giganti come il T5, cattedrali come il T3, navate come l’Omec. Sono questi i capisaldi e i punti di riferimento per la costruzione del nuovo».
Per questo sostiene la candidatura a patrimonio dell’umanità?
«Non solo. La denominazione “città delle delel fabbriche” è limitativa: siamo davanti a un polo della città contemporanea. Questi complessi possono aspirare al rango di monumenti come chiese e palazzi: sono densi di storie e sono architetture eccezionali. Il pericolo è trasformarli in ruderi o in semplici contenitori».
Il T3 come museo di arte contemporanea?
«Per le grandi opere e le grandi macchine. Va creato in sinergia con Milano, che ne è sguarnita e da tempo vuole realizzarlo. Penso a un polo diviso in due parti che dialogano tra loro in un gioco di rimandi. È l’occasione per sfidare Milano: è tempo di ingaggiare una fruttuosa competizione e di dare un bell’esempio di cosa significa città metropolitana».
Cosa deve diventare il piano Falck?
«Un laboratorio di buone pratiche e di qualità urbana. L’opportunità è di un salto di qualità complessivo, non solo per Sesto».
Qualità urbana fa rima con sostenibilità sociale?
«L’attenzione è alla trama delle relazioni possibili e auspicabili. L’urbanità deve essere il principio costitutivo degli insediamenti e delle relazioni. Sono le relazioni interpersonali e sociali a dover declinare l’organizzazione materiale della città, non le case».
La committenza?
«Il privato non vede l’ora di fare uno spezzatino delle aree. Dobbiamo capire che non abbiamo a che fare con una proprietà che realizza, ma con una proprietà che venderà ad altri».
E il committente pubblico?
«Il Comune deve guidare i processi, deve mantenere la regia. Deve saper fare una città, dove nuovo e vecchio dialogano per un nuovo organismo tutto da inventare. Il privato non ha questa intelligenza, il pubblico sta imparando».
La mostra con i lavori dei suoi studenti che contributo può dare?
«Andiamo a misurare lo stato di salute dell’università e il grado di attenzione e ricezione dell’amministrazione. Sono stati coraggiosi: si sono messi dei rompiscatole in casa».
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