di Michele Pusterla
Cino (Sondrio), 17 ottobre 2012 - «Lo Stato, 12 anni fa, ha permesso che mia figlia Sonia di 20 anni fosse uccisa dal marito dal quale si stava separando: i magistrati che avevano ricevuto più di una denuncia non avevano fatto nulla per impedire che Francesco Gussoni la pugnalasse a morte nella loro casa di Cino, anche l’ultima querela era stata dimenticata in un cassetto del pm. E oggi lo Stato, attraverso l’Agenzia delle Entrate, mi chiede di versare alle casse pubbliche 27mila euro per fare valere il risarcimento di un milione e 600mila euro a cui è stato condannato l’imputato, dalla mia famiglia in realtà mai incassato».
È furente Paolo Di Gregorio, originario della provincia di Catania, 64 anni, una vita a lavorare in Svizzera per un’impresa specializzata in apparecchiature di alta fedeltà vendute alle star della canzone italiana, dove ha vissuto a lungo e dove con la famiglia si è «rifugiato» nel 2006, quando l’assassino della ragazza, fioraia a Morbegno, tornò in libertà per l’indulto e subito aveva detto di voler tornare in Valtellina, a Dubino, il paese di cui è originario. Dopo soli 2 anni e 8 mesi di carcere. «Non ce l’ho tanto con l’ex mio genero — dichiara Di Gregorio, vicepresidente dell’Associazione italiana vittime della violenza — ma piuttosto con chi, non intervenendo, ha consentito che il brutale omicidio fosse commesso il 21 gennaio 2000».
E ancora: «Con l’avvocato Enza Mainini di Morbegno ho deciso di non lasciare prescrivere il risarcimento, non perché sia convinto che Gussoni un giorno paghi il debito, ma perché non dimentichi mai il male che ha fatto a Sonia, portandole via la vita, alla figlioletta poi adottata da me e da mia moglie Mirella, e perché non scordi il dolore che ha suscitato nel resto della mia famiglia. Ma anche lo Stato non dovrà dimenticare chi sono stati i veri mandanti del barbaro delitto».
Gussoni, nel corso del processo di primo grado a Sondrio, fu prosciolto perché ritenuto completamente incapace di intendere e volere al momento del fatto: ebbe solo la pena accessoria di un periodo minimo di 5 anni di cure nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione delle Stiviere (Mantova). In Appello, a Milano, il 30 settembre 2003, invece, i giudici ribaltarono in parte la prima sentenza. Infermità non più totale, ma parziale e condanna a poco più di 11 anni, oltre a tre di soggiorno nell’ospedale. In più il maxi-risarcimento: un milione alla figlia minore, il resto diviso fra Di Gregorio, la consorte e gli altri due figli. E ora la richiesta-beffa di versare all’Erario una parte dei soldi in realtà mai riscossi. Come accade agli imprenditori, prima della recente riforma, costretti a pagare l’Iva, senza prima avere incassato la prestazione fatturata.
«Si tratta dell’imposta di registro — spiega l’avvocato Andrea Turconi di Milano, uno dei legali che assiste l’ex emigrante — ossia una tassa che lo Stato esige dai cittadini che hanno ottenuto dall’autorità giudiziaria un provvedimento esecutivo. L’importo, calcolato sul valore del risarcimento a cui si ha diritto, è da versare a prescindere dall’esito dell’esecuzione». Una legge assurda. Che uccide ancora.
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