Bergamo, 13 maggio 2018 - Dice Agnese: «Non volevano, ma noi siamo riusciti a vederlo all’obitorio prima dell’autopsia: era molto sereno». Adriana: «Con lui abbiamo toccato il massimo punto di crudeltà e di orrore: uccidere un prigioniero». Ora sono sedute fianco a fianco sullo stesso palco del Bergamo Festival in un Teatro alle Grazie strapieno, Agnese Moro e Adriana Faranda, la figlia dello statista ucciso e l’ex terrorista. Non è la prima volta che si ritrovano, da anni seguono lo stesso faticoso percorso della giustizia “riparativa”, quella che prova a far incontrare vittime e carnefici per aiutare le une e gli altri a uscire dal loro dolore. Hanno anche partecipato con i loro scritti al «libro dell’incontro», ma quarant’anni fa Adriana e Agnese non si cononoscevano quando le loro vite si incrociarono per la prima volta.
Faranda, allora 27 anni, era nel vertice esecutivo delle Brigate rosse, il gruppo che decise e pianificò la strage di via Fani, con il massacro dei cinque uomini della scorta e il sequestro del presidente della Dc. Non ha mai ucciso nessuno, racconta di sé, ma era lì con loro. Avrebbe dovuto portare in via Caetani la Renault rossa con il cadavere di Moro, ma riuscì a evitarlo all’ultimo momento. Però era con il suo compagno Valerio Morucci nella cabina dell’ultima telefonata delle Br con le istruzioni sulle ultime volontà del presidente, anche se nel gruppo aveva votato contro la decisione di ucciderlo. «Fu una scelta scellerata - ripete oggi - un errore non solo politico ma umano». Sono passati 40 anni ma Agnese, allora 25enne, non può dimenticare quei 55 giorni tremendi e quel vortice di sentimenti. «Orrore, odio, rabbia, persino sensi di colpa... Il primo vero contatto con la presenza del male nella vita - ricorda - non solo quello fatto dalle Brigate rosse ma anche quello che si avvale delle persone buone - dice con amara ironia -. Quelle che dovevano avere a cuore il suo ritorno e invece non erano interessate...». È solo un accenno ai misteri e ai dubbi su quei giorni tra la strage e il cadavere nella Renault rossa, ma svanisce subito perché quello è il passato: da tempo Agnese ha scelto invece di guardare avanti. «Pensavo di stare meglio dopo i processi e le sentenze dei tribunali, ma non è capitato così», ha dovuto ammettere con se stessa. È stato allora che ha scelto in silenzio il percorso della giustizia riparativa, è lì che attraverso l’opera dei mediatori penali come Claudia Mazzuccato, Adolfo Ceretti e Guido Bertagna, ha incrociato per la prima volta il destino parallelo di Adriana.
Faranda ricorda che dopo l’arresto «il carcere è stato quasi una liberazione», ma da lì non poteva avere nessun rapporto «con le persone che avevo ferito». Dissociata dalla lotta armata, anche per lei l’approdo al dialogo con le sue vittime è stata quasi una strada obbligata. Anche se dice di essere troppo rigorosa con se stessa per potersi in qualche modo perdonare. Ripensando alle scelte del passato, lei ragazza entrata all’università nel fermento del ’68, parla della strategia brigatista come di un «terribile errore di valutazione». E ammette che «prima di arrivare alla giustizia riparativa si può sempre trovare una possibilità di dialogo». Certo un dialogo non scontato quello tra la figlia della vittima e l’ex terrorista. «Però anche in famiglia nessuno mi tratta come pazza», rivela Agnese. «Mia sorella più grande non si oppone e i fratelli mi guardano in modo un po’ strano ma insomma... Con mio figlio ho avuto qualche difficoltà a far accettare questo rapporto. A lui l’ho detto prima che la cosa si sapesse pubblicamente. Era la fase della sua adolescenza e un po’ ne approfittava. Quando magari gli dicevo che non mi piaceva certa gente che frequentava, lui replicava: perché te invece hai dei begli amici...».