Bergamo, 25 maggio 2018 - Echi lontani eppure sempre vivi. Le parole di Giovanni XXIII ai detenuti di Regina Coeli: «Ho messo i miei occhi nei vostri occhi, ho messo il mio cuore accanto al vostro cuore». Era il dolce giorno di Santo Stefano del 1958. Dopo oltre mezzo secolo ritornano, intatte, mentre il pick-up bianco e trasparente che trasporta il corpo del papa di Sotto il Monte si materializza nel grande cortile del carcere bergamasco di via Gleno. Un viaggio attraverso l’Italia, quel ritorno a casa che Roncalli aveva lungamente desiderato in vita si compie ora con la “Peregrinatio” in terra bergamasca. A sessant’anni dall’elezione a papa, a 55 dall’enciclica “Pacem in terris” e della morte, il 3 giugno 1963. Sono in tremila ad attendere in piazza Vittorio Veneto, nel centro di Bergamo, quando sono le tre e mezzo del pomeriggio. Poi verso il carcere, lentamente, solennemente, mentre suonano le campane di tutte le chiese, avvolto dal sobrio, composto affetto bergamasco, alimentato da sentimenti forti, che schivano le esteriorità.
Sono più di mille (1.013, li ha contati qualcuno) in attesa nel cortilone inondato dal sole. Fra loro Maria Roncalli, figlia di Giuseppe, il fratello più giovane di Papa Roncalli, uno dei nove nipoti viventi. Sono oltre duecento, di cui una trentina donne, i detenuti che hanno chiesto di essere presenti. È straniero il 60 per cento dei 569 ospiti del carcere bergamasco, molti i musulmani, in pieno Ramadam fino al 14 giugno. Non portano più i logori pigiamoni a strisce dei loro predecessori, sono accomunati dai berrettini gialli con lo stemma di Papa Giovanni. Ha una storia El Fyek Abdiazir, marocchino: «È una grande gioia essere qui. Quando Giovanni Paolo II venne a Casablanca, mio padre andò a vederlo allo stadio. Ritornò felice, ma era sfinito. Morì il giorno dopo. Oggi sono felice anche per lui e perché sono a Bergamo da trent’anni. Sono stato il primo a fare la richiesta per essere qui, anche se sono di un’altra religione». Daniela Aponte è in carcere dall’agosto di tre anni fa, il marito è nella sezione maschile: «Sono contenta, siamo contente. Le mie compagne spesso si sentono dimenticate. Almeno io, ogni tanto, ho dei permessi per uscire». Volteggia un elicottero. I canti del coro Anghelion Gospel Choir. Sono le cinque e si apre il portone. Un applauso accoglie l’ingresso del pick-up. Le spoglie di Papa Giovanni. Il viso. Il profilo. Le mani.
I paramenti. Il saluto del vescovo di Bergamo, Francesco Beschi, con la clausola finale diretta alla gente del carcere. «Ricevete la carezza e l’abbraccio del Santo Papa Giovanni. E voi dovete diventare una carezza e un abbraccio per lui». I detenuti sfilano davanti alla teca, la toccano, la sfiorano con i drappi gialli. Sfilano i detenuti. Toccano, sfiorano la teca con un drappo giallo, ornato dallo stemma papale, che diventa a sua volta reliquia. Qualcuno lascia un foglio dove è scritta una preghiera. Uno piange. Il salto dei detenuti all’urna. «Vorremmo - legge una donna - dire il nostro sentito grazie a Papa Francesco che ha permesso che la reliquia giungesse nella terra natia del Papa buono e grazie a questo permesso oggi è giunta finalmente anche tra di noi». «San Giovanni XXIII - dice Pantaleo -, è vero che noi abbiamo sbagliato, che si deve scontare una pena, ma tu ci inviti ad offrire al Signore i nostri sacrifici. Noi ti promettiamo che faremo di tutto per meritarci la libertà ed essere nuove persone e magari buone come te». Un applauso dalla gente in attesa fuori dal carcere. Il pick-up sale in Città Alta, raggiunge il seminario voluto e seguito da Giovanni XXIII. Di lì, in processione, i sacerdoti della diocesi accompagnano il pontefice bergamasco alla cattedrale.