Bergamo, 10 gennaio 2020 - Poco più di un mese e mezzo fa, era il 20 novembre, all’ospedale Papa Giovanni i pazienti Covid erano 194, di cui 61 in terapia intensiva. Cinquanta giorni dopo (il dato è quello del 7 gennaio) i ricoveri per coronavirus sono diminuiti del 65%. Attualmente infatti l’ospedale di Bergamo ospita 66 pazienti Covid, di cui 29 in terapia intensiva. La contrazione delle ospedalizzazioni non riguarda solo il Papa Giovanni ma anche gli altri ospedali della Bergamasca.
Sempre considerando il periodo 20 novembre-7 gennaio, nell’Asst Bergamo Ovest (Treviglio e Romano di Lombardia), i ricoverati sono passati da 206 a 57 (-72%), mentre nei presidi dell’Asst Bergamo Est (Seriate, Alzano, Piario, Lovere e Gazzaniga) da 148 a 52 (-64, 8%). Ma che cosa ci dicono questi numeri, per il presente e anche – se non soprattutto – per il futuro? Abbiamo girato questa e altre domande al dottor Luca Lorini, responsabile del reparto di Terapia intensiva del Papa Giovanni.
Dottore, il numero dei ricoverati in terapia intensiva nel suo ospedale, come negli altri della provincia di Bergamo, sono in diminuzione. Il peggio è passato? "I numeri attuali non ci permettono di fare una previsione del genere ma sono ugualmente dati solidi che ci dicono una cosa molto importante: dobbiamo rimanere molto accorti. La terza ondata, anche se preferirei parlare di seconda ondata allungata, arriverà. Probabilmente entro due settimane. Non ne conosciamo la portata, perché molto dipenderà dai comportamenti che abbiamo tenuto durante le festività natalizie ma arriverà".
Il peggio, insomma, non è ancora passato? "Il numero dei ricoverati in terapia intensiva a Bergamo ha una rilevanza relativa perché è un errore parlare di microcosmi. Bergamo, la Lombardia, l’Italia non sono isole. L’Inghilterra ha avuto questo tipo di approccio e ora ne sta pagando le conseguenze".
Che differenze ci sono, per la sua esperienza, tra la fase attuale e la scorsa primavera, dal punto di vista ospedaliero? "Molte per quanto riguarda il nostro lavoro e direi nessuna per quanto riguarda i pazienti. Il sistema è più preparato: attrezzati sia dal punto di vista strumentale che logistico, conosciamo la differenza di questa malattia e sappiamo che cosa ha funzionato e che cosa no per contrastarla, partendo dal presupposto che l’unica cura è il vaccino".
Diceva però che la caratteristiche dei pazienti della terapia intensiva sono le stesse? "Proprio così. L’età media (over 65, ndr ) è la stessa della prima ondata, così come è molto simile la mortalità e il tempo di degenza".
Detto questo, quali sono le cose importanti in vista delle prossime settimane? "Vaccinare e proteggere i nostri anziani. Il vaccino è l’unica cura per il Covid e per questo dobbiamo procedere nel modo più veloce possibile. Garantire protezione agli anziani, che non vuol dire rinchiuderli, però è altrettanto importante. Nella prima ondata abbiamo avuto in Italia 36mila morti, dei quali 32mila erano over 65. Se, come ho detto, le caratteristiche dei pazienti in terapia intensiva non è cambiata, mi sembra chiaro che sono sempre gli anziani i soggetti più a rischio e mi sembra altrettanto chiaro che se diminuiamo i rischi per loro diminuiamo anche la mortalità generale del virus, senza dimenticare che ora abbiamo il vaccino".
La protezione degli anziani introduce il tema delle norme anti-contagio. Pensa che quelle attuali siano sufficienti?
"Abbiamo raggiunto un punto di equilibrio. Tornando alla domanda iniziale, i dati ci dicono che non dobbiamo allargare le maglie ma nemmeno introdurre nuove restrizioni".
Quando ne usciremo? "Le guerre di solito durano cinque anni. Qui si tratta di tenere duro per altre cinque o sei settimane ma, ripeto, vaccinazioni e protezione degli anziani sono elementi imprescindibili".