Bergamo – Miracolo Abramović. Plana a Bergamo ed è un richiamo irresistibile per il “popolo” delle performance che la segue, ovunque sia, nel mondo. Lei fa una lectio, arrivano in 650 per ascoltarla, per adorarla, e confessarle tutto il loro “amore”.
C’è l’antropologa 40enne con un lavoro che non le piace in uno studio medico, chiede consigli, la laureata con tesi sul metodo Abramović, che la ringrazia, un’altra che non si “piace, non accetta di invecchiare”, e un signore avanti negli anni che sale sul palco e srotola un manifesto di una performance (con Ulay, suo grande amore) degli anni Settanta, nella Galleria di Arte Moderna a Bologna. E lei, Marina, una delle persone più influenti del nostro tempo, cordialissima, non si sottrae, diffonde energia, regala abbracci (all’artista in crisi di idee), baci, offre consigli (“Fai quello che ti piace, non occuparti del giudizio degli altri, se li avessi ascoltati non starei qui..”), ringrazia tutti, più volte, perché senza il pubblico non c’è energia e “voi qui me ne date moltissima”.
“Amo la vita - dice rivolta alla platea - ho avuto un’embolia polmonare, paure? Ne ho... voglio dedicare il tempo a quello che amo di più fare. E nelle performance mi sono sempre sentita protetta”. Applausi. Scende qualche lacrima, il dialogo fra l’artista e il suo pubblico raggiunge livelli alti. L’occasione, di una giornata storica, è data dalla mostra, Marina Abramović Between breath and fire (sino al 16 febbraio), che indaga alcuni temi chiave che hanno contraddistinto la sua carriera cinquantennale: il respiro, il corpo, la relazione con l’altro e la morte. Trenta lavori recenti e storici, presentati tra interno ed esterno, a “gres art 671”, nuovo indirizzo dell’arte contemporanea a Bergamo. Anche il giardino con il paesaggio sonoro Tree, rientra nel percorso, si ode, tra gli alberi, un canto di uccelli, sfumati i confini tra naturale e artificiale, tra realtà e finzione, tra mortalità e trascendenza.
Un progetto complesso che ha al proprio centro l’installazione cinematografica SevenDeaths dedicata da Abramović a Maria Callas, di cui diventa una sorta di alter ego: un amore che ha avuto origine nell’adolescenza dell’artista serba che ricorda di aver sentito per la prima volta la voce della Divina nella cucina della nonna a Belgrado e di essersi commossa per la sua potenza emotiva. “Non capivo le parole - era in italiano - e ricordo di essermi alzata in piedi, sentendo una scarica elettrica lungo tutto il corpo e un’incredibile emozione attraversarmi. Iniziai a piangere senza riuscire a controllarmi; fu una tale emozione da non poterlo mai dimenticare”. Di fatto è la parte più interessante della mostra, un’esperienza immersiva con le rievocazioni e la messa in scena di sette morti tragiche e premature delle eroine interpretate da Maria Callas e impersonificate da Abramović, in sottofondo la colonna sonora con i sette assoli della soprano. Callas, dice, “era così forte sul palco, ma così infelice nella vita. E morì davvero per amore. Una volta, nel corso della mia vita, anch’io fui così innamorata (commovente l’incontro con Ulay al Moma, ndr) da non riuscire a mangiare, a dormire, a pensare, ma poi, il mio lavoro mi salvò”.
In mostra troverete molto altro, dalla prime celebri performance come Lips of Thomas, in cui l’artista si incise (nel 1975) una stella a sette punte sull’addome e si sdraiò su blocchi di ghiaccio fino all’intervento risolutivo del pubblico, a Art Must Be Beatiful, The Artist Must Be Beautiful, video in cui si pettina ossessivamente. Resta memorabile la sua performance al Moma, 700 ore su una sedia a fissare immobile di fronte a sé. Una delle più lunghe della storia.