FEDERICA PACELLA
Cronaca

Battaglia del Checkpoint a Mogadiscio, il paracadutista Stefano Ruaro: passati 30 anni ma quell’inferno non va rimosso

Nella battaglia del checkpoint persero la vita in tre. "Molti ragazzi di leva hanno reagito da leoni"

Stefano Ruaro all’epoca della missione italiana in Somalia quando era paracadutista del 9° Reggimento “Col Moschin

EdoloO (Brescia), 11 luglio 2023 – “È stata una battaglia in cui l’Esercito italiano ha versato il più alto tributo di sangue dopo la II Guerra Mondiale, nonostante fossimo in missione umanitaria. Ora vorrei che a tutti i 31 feriti fosse reso l’onore che meritano".

Ricorda così il “suo” 2 luglio 1993, Stefano Ruaro, 57 anni di cui 35 passati al servizio dello Stato nell’Esercito italiano. Quel giorno, data della battaglia del Checkpoint Pasta a Mogadiscio, era incursore paracadutista del 9° Reggimento d’assalto Paracadutisti “Col Moschin” (reparto di élite delle forze speciali), nel contingente italiano nella Somalia dilaniata dalla guerra civile, per l’operazione umanitaria Ibis sotto l’egida delle Nazioni Unite. Il rastrellamento di routine in un quartiere di Mogadiscio finì con la morte di tre soldati italiani (Andrea Millevoi, Stefano Paolicchi e Pasquale Baccaro) e appunto 31 feriti, come ricordato in occasione dei trent’anni dalla sanguinosa battaglia anche dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella e dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni (al Vittoriano è stata inaugurata anche una mostra).

"La Somalia? Era il caos", ricorda Ruaro, che vive a Edolo, nel Bresciano. Lo fu anche quel 2 luglio. Un’operazione che sulla carta doveva essere tranquilla si trasformò in un inferno: barricate, sassaiole dei civili che coprivano le retrovie dei miliziani, cecchini sui tetti. Forse i somali (galvanizzati dal khat, la “droga dei poveri”) volevano difendere un grosso quantitativo di armi o nascondere uno dei signori della guerra, il generale Aidid.

"Noi eravamo professionisti addestrati, con equipaggiamenti buoni per l’epoca. Ma c’erano tanti ragazzi di leva, paracadutisti, che si sono trovati a combattere corpo a corpo. Si sono battuti come leoni". Anche gli uomini del 1° Reggimento Carabinieri paracadutisti Tuscania diedero un grande supporto. Ruaro, dopo aver fermato un centro di fuoco (un cecchino catturato, due messi in fuga), fu colpito a gambe e mano destra, ma come descrive il decreto presidenziale che, nel 1995, lo ha insignito della medaglia di bronzo al valor militare, è riuscito "con grande fermezza d’animo e stoica sopportazione del dolore a mantenere il controllo del mezzo evitando ai commilitoni trasportati di permanere sotto il fuoco nemico. Soccorso dai colleghi, pur consapevole della gravità delle ferite, li incitava a proseguire nell’azione".

Dopo 30 anni , ricordi, volti, pensieri sono tutti perfettamente impressi nella mente. "Paolicchi si sarebbe dovuto sposare a fine luglio. Dobbiamo ringraziare le famiglie, a partire dalla mia, per tutte le preoccupazioni che hanno vissuto". Oggi Ruaro, in pensione, si dedica alle sue passioni, a partire da quella di maestro di sci, e si occupa di progetti destinati a ragazzi con disabilità. Ma l’impegno è anche a non far dimenticare questa pagina di storia e perché quanto accaduto non sia vano (imparando anche dagli errori), visto che in vari angoli del mondo sono attive altre quattordici missioni italiane. "Vorrei che a ciascuno dei 31 feriti fosse dato un riconoscimento. Probabilmente nei paesi in cui vivono non sanno neanche chi sono questi uomini che 30 anni fa hanno vissuto l’inferno e che si sono battuti con onore. Non è facile convivere con i ricordi di ciò che abbiamo visto, chiedersi perché altri sono morti in un Paese in cui non eravamo invasori".

Oltre che in Somalia, Ruaro è stato in Iraq, Afghanistan, Bosnia. Rifarebbe tutto? "Sì, e non solo perché è il lavoro che ho scelto. La domanda che mi pongo è se se sia servito ciò che abbiamo fatto. Io credo di sì".