BEATRICE RASPA
Cronaca

Brescia, Mina morta bruciata. Il marito al processo: "Si è data fuoco da sola "

Così Abderrain Senbel, marocchino, a processo con l’accusa di avere ucciso la moglie, bruciandola, nel settembre 2020

La palazzina di via tiboni a drago nella, Mina Safine deceduta bruciata dal marito Abderra

"Mai io ho alzato le mani su mia moglie. Ha fatto tutto da sola". Parola di Abderrain Senbel, il 55enne del Marocco a processo con l’accusa di avere ucciso, dandole fuoco, la moglie, Mina Safine, connazionale con dieci anni di meno, nella loro casa di via Tiboni a Brescia. Era il 20 settembre 2020. Calmo, freddo, volto terreo, Senbel con l’aiuto di un interprete ha dato ai giudici la sua versione. Addetto alle pulizie in un albergo lui, badante lei, marito e moglie di quella sera hanno dato versioni contrapposte. "Mio marito mi ha bruciato, chiamate l’ambulanza per favore’, la chiamata della donna al 112 alle 22.14. E qualche minuto dopo, a un parente: "Mi ha ammazzata". Tre settimane dopo, con il 90% di ustioni sul corpo, la 45enne è morta in ospedale. Senbel però ha raccontato altro. "Siamo arrivati in Italia nel 2009, e da subito abbiamo iniziato a litigare perché in casa mancavano soldi. All’inizio lavorava solo lei, io facevo solo lavoretti - ha dichiarato - Poi è subentrato il problema dei figli mancati, e degli aborti ripetuti.

La prima volta, nel 2010, Mina rimase incinta ma abortì volontariamente con una tisana. Negli anni ebbe altri aborti spontanei. Prese a soffrire di non avere figli. Io cercavo di tranquillizzarla, le dicevo di non farsene una colpa, che saremmo stati nelle mani di Dio. Ma lei era infelice, si sentiva sola, era gelosa, anche perché tornavo a casa dal lavoro un solo giorno a settimana". Poi il 55enne ha proseguito: "Mina mi diceva che un giorno si sarebbe data fuoco. Lo ha fatto 4 volte. Io la seguivo in cucina per fermarla. Voglio vedere se mi ami, mi chiedeva. Io le dicevo che non stava bene e doveva farsi vedere da un medico. Non so dire dunque se quello che è successo sia stato un gesto di rabbia finito male, o se voleva davvero suicidarsi". Quel 20 settembre l’uomo a suo dire trovò la moglie di malumore sin dal mattino. "All’ora di cena, in attesa che lei mi riscaldasse la zuppa, mi sono appisolato sul divano. A svegliarmi è stato un rumore di scroscio d’acqua e di una bottiglia cadere. Ho visto Mina in piedi in cucina bagnata prendere con la mano sinistra un accendino e darsi fuoco dalla testa. Non l’ho vista gettarsi l’alcol addosso, l’aveva già fatto. Io ho cercato di chiudere il tubo del gas per evitare un’esplosione, era a 40 cm dai fornelli, ma lei me l’ha impedito abbracciandomi stretto. Andiamo via insieme, non ti lascio vivo, diceva. Lei bruciava e io cercavo di liberarmi, credevo di morire. Stringeva, siamo caduti a terra e rimasti stretti per minuti (prima ha sostenuto 10, poi ha rettificato: un paio, ndr). Quando mi sono liberato mi ha trattenuto per una caviglia. C’era fuoco sul pavimento, sui fornelli. Alla fine sono riuscito ad andare a prendere una coperta di pile in camera e l’ho avvolta. L’ho buttata anche su un pezzo di bottiglia che bruciava ancora". A chiamare i soccorsi, è stata Mina stessa: "Io non conoscevo il numero e non so parlare italiano. Sono uscito sul balcone a chiedere aiuto, e lei ha telefonato ai fratelli accusandomi". L’attenzione del presidente della Corte Roberto Spanò e del pm Caty Bressanelli si è concentrata su alcune contraddizioni rispetto alle dichiarazioni rese in fase d’indagine. Per esempio, l’accendino che ha trasformato Mina in torcia umana. L’imputato ha sostenuto di non averlo visto in quel frangente in mano alla moglie.