Brescia, 13 giugno 2021 - "Queste ragazze sono state coraggiose: l’auspicio è che siano credute". A parlare è Piera Stretti, presidente di Casa delle donne di Brescia, centro antiviolenza a cui si si è rivolta la pakistana di 24 anni, fuggita di casa con le tre sorelle per scappare al matrimonio combinato a cui la famiglia avrebbe voluto obbligarla ed inserita in una struttura protetta. "Sana (Cheema, ndr) è finita male perché non ha voluto sposarsi, vuoi fare la stessa fine", le avrebbe detto il fratello nel 2019, secondo quanto raccontato in tribunale, durante il processo che vede imputati padre, madre e lo stesso fratello per maltrattamenti in famiglia ed induzione al matrimonio. "C’era stato già un caso simile precedente – ricorda Stretti – non molto tempo fa. La denuncia della ragazza è stata però archiviata. Per fortuna, la giovane è stata messa in una struttura protetta, ma l’archiviazione la ha addolorata molto, perché è stata vittima di maltrattamenti".
Una vicenda che non può non far tornare alla mente il caso di Saman, la giovane di Novellara che rifiutava le nozze combinate ed il cui corpo non è ancora stato trovato. "Attenzione, ci possono essere ragazze che accettano di buon grado il matrimonio combinato – sottolinea Stretti – perché i genitori fanno scegliere fra i vari candidati. Il problema è quando la ragazza non vuole accettare la prospettiva di sposare un uomo che non conosce. Da combinato, allora, diventa forzato, che è uno dei reati gravi previsti dal Codice Rosso, che esula da maltrattamenti, sempre presenti in questi casi". Dinamiche che in Casa delle donne conoscono bene. "Nel 2019 abbiamo fatto un convegno su crimini d’onore e matrimoni forzati, ma non ha avuto grande risalto. Credo ci sia sempre un po’ il timore di scoperchiare temi che possono essere poi strumentalizzati, coinvolgendo anche famiglie che hanno superato queste tradizioni. L’obiettivo non è di criminalizzare, ma di prendere atto dal punto di vista antropologico di queste consuetudini. Alla base, c’è sempre la mentalità patriarcale per cui la donna appartiene all’uomo, concetto che, nella società italiana, è anche alla base della violenza verso mogli e fidanzate".
Di fatto , i matrimoni forzati, se non sono generalizzati, non sono però neanche residuali. "Non sono solo pakistane. Abbiamo avuto una signora albanese, ad esempio, con un matrimonio combinato dai genitori poi fino male. Diversi anni fa avevamo avuto molte richieste d’aiuto, ma poi le ragazze tornavano poi indietro. Credo che la fine di Saman possa essere un monito, per indurre chi si trova in queste situazioni ad uscirne". La denuncia, tuttavia, è solo l’ultimo step. "Prima, in gran segreto, devono contattare una realtà che possa aiutarle, perché l’uscita da questa situazione deve essere programmata. Non possono denunciare senza avere le spalle coperte, senza sapere di aver un aiuto che duri nel tempo e che può prevedere anche il cambio di nome. E poi, quando denunciano, devono essere credute: non bisogna aspettare che siano morte". La fase più difficile da superare è proprio il rifiuto del matrimonio combinato. "È molto più facile divorziare che opporsi al matrimonio, soprattutto se in ballo non ci sono interessi economici – spiega Stretti – alla base c’è il problema della dote. Ora, ad esempio, le ragazze che studiano hanno più ‘valore’ nella contrattazione. Va bene anche che lavorino, sempre nel solco di quanto programmato dal marito". Nel caso della 24enne pakistana, ad esempio, in palio per il futuro marito ci sarebbe stato l’arrivo in Italia in modo regolare. "La testimonianza di questa ragazza - conclude Stretti - è stata molto coerente. Dall’altra parte, le parole dei fratelli maschi sono invece sempre le stesse. Speriamo che venga creduta".