Brescia – “Troppo tardi glielo hanno dato”. Franca Faita, 76 anni, commenta con la consueta ironia l’assegnazione del Premio Nobel per la pace a Nihon Hidankyo, associazione dei sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki ‘premiata per i suoi sforzi per realizzare un mondo libero dalle armi nucleari’. “Sono contenta per loro – aggiunge poi – e spero che questo magari aiuterà a smuovere un po’ la gente. Siamo diventati tutti troppo freddi, ognuno pensa per sé, le armi viaggiano a tutti spiano, anche sopra le nostre teste e tutti fanno finta di niente”. Faita, invece, non ha mai rinunciato a impegnarsi per la pace in prima persona, senza badare alle conseguenze per sé stessa. Un impegno, il suo, premiato con il Premio Nobel per la pace che, nel 1997, fu assegnato alla campagna internazionale per la messa al bando delle mine antiuomo, di cui Faita fu una delle voci.
“Non andai a Stoccolma a ritirarlo, perché in quei giorni stavamo occupando la fabbrica e non potevo permettermi di lasciare le mie donne qui, perché se mancava il sindacato c’era il rischio che uscisse il materiale”. Nella sua casa di Castenedolo, conserva ancora giornali del tempo che raccontano la storia dell’operaia che ha lottato contro la più grande fabbrica di mine d’Italia, con due stabilimenti produttivi a Castenedolo. “Io ho iniziato a lavorare a 14 anni, ho sempre fatto anche attività sindacale e volontariato. Dal 1968 ho iniziato a lavorare alla Valsella Meccanotecnica, nel civile. Nel 1983, ci hanno chiamato dicendo che l’azienda era in crisi e che saremmo diventati militari. Una delle prime commesse fu per Saddam”.
Faita, come gli altri operai, non aveva esattamente idea di cosa facessero le mine. “C’era il segreto militare. Noi sapevamo che facevamo armi di difesa del territorio. Stampavamo la mina, ma non la vedevamo completa. La svolta è stato l’incontro con Gino Strada – ricorda –. Lui ci fece vedere delle foto, un filmato. Erano le nostre mine, i nostri seminatori. Quando ho capito cosa stavamo facendo, mi sono sentita male”.
Inizia così la battaglia durata 4 anni, condivisa soprattutto dalle altre donne della fabbrica, per chiedere di riconvertire la produzione sul civile. “L’azienda mi offrì un assegno in bianco, io rifiutai. Mi sono presa un bel po’ di denunce. Alla fine ce l’abbiamo fatta, l’azienda è tornata sul civile e nessuno dei 150 lavoratori ha perso il posto. Mi sono prodigata personalmente perché nulla, stampi militari, documenti, uscisse dall’azienda. E sono andata in giro per l’Italia a spiegare cosa stavamo facendo”.
Un’azione che ha contribuito a far crescere la sensibilità dell’opinione pubblica sulle mine antiuomo, messe al bando con la Convenzione di Ottawa del 1997. Il senso civico di Faita non si mai spento: oggi è il cuore e l’anima dell’Auser di Castenedolo. “Mi fa arrabbiare l’indifferenza. Bene quindi il Premio Nobel per la Pace di quest’anno, che possa servire a smuovere le coscienze. Io rifarei tutto, se sono riuscita a ottenere qualcosa non è per me, ma per gli altri, per i giovani”.