
Brescia, nel processo in Corte d’Assise le verità della teste chiave dell’inchiesta sui presunti esecutori. Nel racconto anche la relazione con il fidanzato di allora Silvio Ferrari e le foto nascoste in pizzeria .
"Questo? Il nome non lo ricordo ma sono sicura: lo associo al capitano Delfino". Secondo round in Assise per Ombretta Giacomazzi, la teste chiave dell’inchiesta sui presunti esecutori della strage di piazza Loggia. La “ragazza della pizzeria“ Ariston stavolta ha risposto alle domande degli avvocati di parte civile e della difesa di Roberto Zorzi, il neofascista veronese imputato di avere infilato la bomba nel cestino dei rifiuti. Nel corso di un’altra udienza fiume Giacomazzi, all’epoca 17 anni, ha messo in fila tasselli, volti, luoghi, facendo emergere di nuovo depistaggi e trame condivise da estremisti di destra e alti ufficiali dello Stato. Di fronte a una foto senza nome di Giangastone Romani - a casa sua, ad Abano Terme, nel Padovano, i vertici di Ordine nuovo il 25 maggio 1974 decisero l’attentato di Brescia - la 68enne non ha esitato: "So chi è. Non ricordo dove lo vedevo ma lo lego a Delfino". Quel Francesco Delfino che (processato per strage e assolto) a sentir lei le rovinò l’esistenza per decenni, perseguitandola perché non dicesse la verità, sbattendola più volte in carcere perché tenesse la bocca chiusa sugli ordinovisti veronesi che incontravano i camerata bresciani nella sua pizzeria. Tra cui il fidanzato di allora, Silvio Ferrari, morto dieci giorni prima di piazza Loggia in circostanze controverse per una bomba che gli scoppiò tra le gambe mentre la trasportava in Vespa. Anni ‘70. Interrogatori in carcere a Venezia, dove la giovane era finita per reticenza e falsa testimonianza: "Delfino mi disse rabbioso che se non volevo essere incriminata di concorso in strage dovevo dire quello che voleva lui: fare i nomi di Andrea Arcai e Arturo Gussago. Mi tirò i capelli girandomi la testa. Mi minacciò. Quando iniziai a raccontare la verità nel 2014 a Giraudo (generale del Ros, ndr) avevo molta paura. Delfino sapeva che io avevo foto scottanti, ero una testimone scomoda".
Ovvero, le foto delle riunioni nella caserma dei carabinieri di Parona e a palazzo Carli. Ferrari le stampava nella sua mansarda di via Aleardi. In quella mansarda stando alla teste c’era un viavai di militari in borghese con cui il fidanzato scambiava plichi con foto, denaro, documenti. Ma quelle compromettenti immagini Ferrari pare le fecesse arrivare anche a uomini della questura. Prima di morire, in preda ai ripensamenti le consegnò a Giacomazzi. "Le nascosi in pizzeria. Per caso sfuggirono alle prime perquisizioni". Poi la ragazza le diede in custodia al suo legale dell’epoca e non furono più trovate. Ma ieri è emersa un’altra sparizione cruciale: "Sparì un mio diario importante. Mi fu preso durante una perquisizione la sera del 28 maggio. Vi annotavo le cose degli ultimi tempi, i miei spostamenti con Silvio, i nomi delle persone che venivano in via Aleardi. Le mie memorie". Per qualcuno pericolose.