Brescia - Nuove infiltrazioni delle cosche ‘ndranghetiste emergono tra Brescia e Bergamo, fondate sul reciproco (e lucroso) vantaggio da parte di mafiosi e imprenditori alleati per fare ‘nero’, risparmiare sulla manodopera e truffare lo Stato. I meccanismi, già anticipati dalle recenti indagini bresciane ‘Atto finale’ e ‘Tabacco selvaggio’, hanno trovato conferma con un nuovo colpo giudiziario assestato dall’Antimafia di Brescia, nella persona del pm Teodoro Catananti, e di Reggio Calabria. Nata a Sud nel 2019, ‘Blu notte’, questo il nome dell’ultima operazione sfociata nell’esecuzione di 13 misure cautelari in Lombardia, ha posto in luce relazioni "pericolose" tra ‘ndrangheta ed edilizia.
Affari sporchi
Sotto i riflettori degli uomini dello Scico della Finanza e dei carabinieri del Ros è finito un imprenditore edile bergamasco (nel frattempo deceduto) attorno al quale ruotavano società cartiere. Società incaricate di emettere fatture in parte inesistenti per la somministrazione di manodopera per società reali. Lo spunto per un’inchiesta che ha acceso i riflettori su un sistema consolidato. Gli accertamenti hanno permesso di riscontrare l’esistenza parallela di un’associazione mafiosa dedita alla commissione di reati fiscali (e alle estorsioni) e di un’associazione specializzata in reati tributari. Due realtà che, stando all’accusa, spesso si sono sovrapposte.
I militari hanno scoperto l’esistenza di cinque ‘cartiere’ intestate a prestanome istituite per somministrare illecitamente manodopera a ditte reali, le quali ne ricavavano più vantaggi: primo, gonfiare i costi grazie alle suddette fatture, abbattere l’imponibile e pagare dunque meno tasse. Secondo, eludere il versamento dei contributi ai dipendenti, addossati alle ‘cartiere’ destinate a fallire che così saldavano mai i debiti con l’Erario. Terzo, accumulare una riserva di risparmio tale da mettere in grado le imprese illegali di praticare prezzi concorrenziali ai danni delle imprese operanti dentro la legalità.
Le fette di torta
Lo schema prevedeva una percentuale per tutti gli attori dell’accordo: un compenso del 15% della fattura destinato alle cosche e un dieci all’imprenditore, pagato grazie a monetizzazioni tramite bonifici su conti esteri, in Europa dell’est. I contanti venivano poi ritirati da ‘spalloni’ e distribuiti. Il giochetto per l’accusa ha accumulato numeri da capogiro: fatture per operazioni parzialmente inesistenti pari a undici milioni, oltre due milioni di Iva evasa, 650 dipendenti coinvolti nella frode e 780mila euro di contributi compensati illecitamente. L’operazione ha portato anche al sequestro da parte degli investigatori bresciani di beni immobili, società e quote per 5 milioni. Sotto sequestro pure 400mila euro in contanti, trovati nella parete di un’abitazione.