FEDERICA PACELLA
Cronaca

Peste suina, la grande paura: “Il contagio rallenta ma ora perdiamo tutti”

In Lombardia 19 focolai, il numero dei casi però è crollato a 1 ogni tre giorni. L’allevatore sotto assedio nella cassaforte bresciana del prosciutto Dop: “Il fermo sta funzionando. Il costo? Nella filiera un buco da 30 milioni al mese”

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Controlli in un allevamento: sono 26 i focolai in Italia di peste suina

Brescia – Le misure prese fino a ora per contenere il dilagare della Peste suina sembrano avere effetto. I focolai aumentano, negli ultimi 3 giorni ce ne sono stati altri due, uno nel Lodigiano collegato a uno già noto in quanto gli allevatori sono i medesimi, l’altro in provincia di Novara, ma la velocità con cui si registrano i nuovi casi è notevolmente ridotta rispetto all’inizio dell’epidemia. Per ora, dei 26 focolai, 19 sono in Lombardia, tra Milano, Lodi, Pavia, ma c’è grande apprensione anche nella parte della Lombardia orientale, tra Brescia, Mantova, Cremona, che rappresentano il cuore del comparto: basti pensare che Brescia, da sola, conta circa 1,5 milioni di capi, sui 4 milioni di tutta la Lombardia che, da parte sua, rappresenta circa la metà del totale nazionale. Nessuno dorme, quindi, sonni tranquilli, come sottolinea Morris Tomasoni, allevatore bresciano che conta allevamenti di suini tra Brescia e Lodi, socio di Confagricoltura Brescia nonché membro del Consiglio di amministrazione del Consorzio del Prosciutto di Parma, ente nato nel 1963 e che annovera tra i suoi principali obiettivi la tutela e la valorizzazione nel mondo di questa iconica Dop.

Tomasoni, come la Psa fa paura, ma per ora i territori a più alta densità di suini sembrano, per fortuna, un fortino visto che non ci sono stati per ora focolai. Come lo si spiega?

“Sicuramente le misure messe in campo stanno dando i loro frutti. Nuovi focolai vengono rintracciati costantemente, ma siamo passati da 3 casi al giorno a uno ogni tre giorni in media. Per quanto riguarda la Lombardia, l’ultimo era collegato a uno precedente, questo ci rassicura un po’. D’altra parte, bisogna considerare il ruolo del cinghiale nella diffusione del virus. Nei nostri territori di Brescia, Cremona, ci sono, ma nulla rispetto al Pavese, dove il numero di animali selvatici è molto più importante per la conformazione stessa del territorio”.

C’è anche chi dice, però, che il caso Psa scoperchia un po’ le criticità degli allevamenti intensivi.

“Non sono d’accordo, nel senso che oggi gli allevamenti suinicoli registrano standard di qualità elevatissimi anche in termini di biosicurezza. Chiaro che non sono una sala operatoria, questo è un virus che si trasmette per contatto, per cui può accadere, vista la presenza di tanti selvatici. Scontiamo oggi, infatti, tanti anni in cui si è fatto poco o nulla per intervenire”.

Lei ha degli allevamenti nel Logidiano, zona colpita dalla Psa. Cosa significa per voi?

“Attualmente, i miei allevamenti non rientrano in nessuna delle zone di restrizione, ma siamo ovviamente in grande allerta, perché il virus ha colpito tutti, allevamenti in filiera e non. Chi sta subendo direttamente le restrizioni è in crisi, servono ristori immediati e adeguati. Gli allevatori o devono depopolare oppure hanno animali che stanno andando oltre il peso previsto, che non possono vendere, ma vanno alimentati. Hanno quindi costi lievitati e ricavi pari a zero. Le conseguenze, però, ci coinvolgono tutti”.

In che senso?

“C’è un generale deprezzamento dei suini, perché c’è un calo delle vendite. Si è calcolato che il problema Psa porta a 20-30 milioni di perdite al mese, a livello nazionale. Consideriamo che i primi casi sono di gennaio 2022, si fa presto a calcolare quanto perde il settore”.

Lei è anche consigliere del Consorzio prosciutto di Parma. Ci sono ripercussioni anche su quel fronte?

“Assolutamente, innanzitutto perché diversi Paesi come Cina, Giappone, Canada, hanno bloccato le importazioni dai Paesi in cui ci sono casi di Psa. Poi, c’è anche un oggettivo calo nel numero di cosce disponibili, per effetto di abbattimenti e blocchi degli allevamenti. Cala quindi il mercato, al di là della difficoltà di collocare il prodotto al prezzo idoneo”.