Brescia – “Quel pomeriggio è venuta in casa tante gente. Una giornalista di cui non ricordo il nome mi chiese: ‘E del bambino cosa ne fate?’. Giorgio, il figlio di mio fratello Alberto e di Clementina, aveva diciotto mesi. Mia moglie Luciana e io ci siamo guardati. Avevamo tre figli e abbiamo deciso all’istante: Giorgio sarebbe stato il quarto. È cresciuto con noi come un figlio".
C’è una foto, iconica della tragedia di piazza della Loggia. Arnaldo Trebeschi è inginocchiato accanto al corpo inanimato di Alberto. Con una mano si copre gli occhi. Di Alberto si vede solo il volto. Il corpo, dilaniato dall’esplosione, è coperto da striscioni e bandiere. Poco distante è morta la moglie Clementina Calzari, Clem. Alberto Trebeschi è un docente di fisica. Clem insegna lettere alle magistrali. Partecipano alla manifestazione antifascista in piazza della Loggia con i loro colleghi e amici della Cgil-Scuola. "Io - ricorda Arnaldo - ci sono andato da solo. Non li ho visti, ho raggiunto il centro della piazza. Ha iniziato a parlare Castrezzati. Ha ricordato che la Costituzione vieta la ricostituzione del partito fascista. Ha richiamato la strage della Banca dell’Agricoltura, a Milano. Al nome ‘Milano’ è esplosa la bomba. Giorgio Leali, della Cgil, ha preso il microfono per invitare a stare fermi, a portarsi sotto il palco. Non gli ho obbedito. Cercavo mio fratello in quello scompiglio. L’esplosione lo aveva scagliato a otto, dieci metri da dove si trovava. Per un attimo ho pensato che non fosse morto. Gli ho messo una mano sul viso, che era intatto. Sono rimasto con lui per quattro, cinque, dieci minuti, non lo so. Come non sono sicuro di avere visto anche la Clem. Alla fine un mio compagno di scuola mi ha trascinato via. Sono tornato a casa. Mio padre non sapeva ancora, ma era preoccupato perché sentiva tutte quelle sirene. Ci siamo incontrati in giardino. Gli ho detto: ‘Sono morti tutti e due’. Nel punto dove era morto Alberto mio padre ha chiesto e ottenuto che fosse collocata una pietra rossa con la data della strage".
“I depistaggi sono iniziati subito. Il primo è stato quello di lavare quasi subito la piazza. Nel pomeriggio sono state perquisite molte case di sindacalisti, fra cui quella di Giuseppe Bialetti, capo partigiano delle Fiamme Verdi, nome di battaglia ‘Giordano’. ‘Dove sono le armi?’, gli hanno chiesto a bruciapelo. Bialetti ha indicato la sua biblioteca: ‘I libri sono le mie armi’. Si guardava a sinistra quando il piano e le azioni erano del terrorismo di destra. C’era la manifestazione antifascista che avrebbe raccolto molte adesioni. Lì si sarebbe colpito. La sinistra non doveva arrivare al governo. Si doveva indurre la gente a invocare una svolta autoritaria".
Nel lungo, travagliatissimo cammino processuale, Trebeschi è mancato a pochissime udienze. "C’era da rimanere a bocca aperta. Non si riusciva a capire come ogni volta non si riuscisse ad arrivare alla verità. Mancava sempre qualcosa. Assoluzione. La svolta è stata nel 1993, quando il giudice istruttore di Brescia, Gianpaolo Zorzi, nella sua ordinanza-sentenza ha messo in evidenza le figure di Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte e il carattere politico della strage. Nel 2014 la quinta sezione della Cassazione, con il presidente Alfredo Maria Lombardi, ha annullato le assoluzioni di Maggi e Tramonte e inviato il processo a Milano. La sentenza diceva che gli indizi a loro carico andavano valutati nell’insieme. Nel 2015, dalla Corte d’Assise d’appello di Milano, presieduta da Anna Conforti, sono uscite due condanne all’ergastolo".
“A oggi c’è questa verità. È una verità che deve essere completata. Mancano ancora gli esecutori materiali. Ci sono i procedimenti a carico di Marco Toffoloni e Roberto Zorzi. All’epoca Toffaloni aveva diciassette anni. A mio parere, potrebbe essere stato scelto per collocare l’ordigno per questo motivo, un ragazzo, non era conosciuto come gli altri".