Mazzano (Brescia), 21 gennaio 2025 – Un certificato di nascita emesso da un Comune del Rovigotto poi null’altro. Né un certificato delle vaccinazioni, né un’iscrizione alle scuole primarie, né tantomeno un intervento delle autorità perché adempisse all’obbligo scolastico. La vicenda della ragazza cinese (oggi maggiorenne) che per 18 anni ha vissuto come una fantasma ha dell’incredibile in Italia, ma potrebbe in realtà essere la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più radicato e “carsico”, che si muove cioè sotto traccia e quindi sfugge agli occhi e ai controlli delle autorità. La giovane di origini cinesi non esisteva per lo Stato: a parte quel certificato, nessun documento d’identità. Tanto meno una tessera sanitaria.
Azienda-prigione
Era tuttavia impiegata nel laboratorio di calzature clandestino, impiantato come decine d’altri in capannoni anonimi e tutti simili fra loro a Mazzano, nella Bassa Bresciana rivolta verso il lago di Garda. Lavorava alla stregua di una “schiava” assieme alla madre. La sua esistenza giustificata solo in quanto operaia da sfruttare alla macchina da cucire per abbattere il costo del lavoro. Segregata come la madre, lasciata dal marito anni addietro per un’altra donna. Orari e turni di lavoro massacranti, fuori da ogni rispetto delle leggi italiane. Il capo chino dalla mattina alla sera sulla macchina da cucire. Casa e lavoro dentro il capannone, trasformato all’occorrenza in dormitorio e in mensa improvvisata, quando i letti di fortuna, il più delle volte dei materassi sporchi, non sono ricavati all’interno di uno scantinato. Totale mancanza d’igiene e di rispetto delle più elementari norme antinfortunistiche.
La scoperta choc
La sua situazione è venuta a galla nel corso di un blitz contro il lavoro in nero della Guardia di Finanza e della Polizia locale di Brescia avvenuta ad aprile del 2024. La giovane non parlava cinese, non aveva con sé alcun documento di riconoscimento, e come la madre non parlava una parola d’italiano. Nel microcosmo cinese che era l’unico che conosceva non c’era bisogno di parlarlo, per comunicare bastava la lingua di Pechino. Gli unici contatti con l’esterno, del resto, erano gli spostamenti di laboratorio in laboratorio fra Veneto e Lombardia, dove la fitta rete di capannoni clandestini del settore manifatturiero sfuggono a volte ai radar dei controlliIl suo caso è seguito ora dall’Ufficio Immigrazione della Questura di Brescia.