Brescia - Il padre pare si sia risposato, abbia lasciato il Pakistan e ora viva con la nuova moglie in Malesia. Il primogenito invece abiterebbe nel Paese d’origine, nel distretto di Gujrat. Di Mustafa Cheema, 55anni, cittadino italiano, e del figlio Adnan, 35, sulla carta tuttora residenti a Brescia, non c’è traccia in Italia.
La Corte d’assise, davanti alla quale sono imputati di omicidio pluriaggravato, ha però disposto siano processati ugualmente. Manca solo il parere del Ministero di Giustizia che i giudici - presidente, Roberto Spanò - hanno interpellato in vista della prossima udienza del 9 febbraio, quando si entrerà nel merito con i primi testi di pg.
La vicenda è quella di Sana Cheema, la 25enne italopakistana cresciuta a Brescia che la procura generale ritiene sia stata giustiziata da padre dal fratello durante un viaggio nel villaggio natale per punirla del rifiuto alla nozze combinate.
Era il 18 aprile 2018. La famiglia sostenne la tesi della morte naturale. Per l’accusa invece fu strangolata con un doupat, il foulard tradizionale, dal fratello mentre il genitore la teneva ferma in camera da letto.
Proprio il giorno prima che la ragazza rientrasse a Brescia. I Cheema erano già stati processati in Pakistan per l’omicidio, ma ne uscirono assolti per insufficienza di prove. Il capofamiglia all’epoca aveva ammesso le proprie responsabilità, salvo poi ritrattare. Le sue dichiarazioni, rese senza un legale, non furono ritenute utilizzabili. Nel 2019 l’ex procuratore generale Pierluigi Dell’Osso decise di avocare a sé l’inchiesta.