Diciannove coltellate sferrate a tradimento in un freddo giorno di gennaio. A uccidere un paziente, Abderrahim El Mouckhtari, 55 anni, ospite della comunità Clarabella di Iseo. La vittima, Nadia Pulvirenti, aveva soltanto 25 anni. Si occupava di riabilitazione psichiatrica e si era trovata da sola con quell’uomo dal passato convulso. Che aveva già passato un lungo periodo in un ospedale psichiatrico giudiziario e che il giudice per l’udienza preliminare di Brescia, in rito abbreviato, ha assolto per totale vizio di mente. Dovrà passare dieci anni in una Rems, ovvero in uno degli ex ospedali psichiatrici giudiziari che sono stati rinominati dalla riforma. I genitori di Nadia, Giuseppa e Salvino, non ci stanno. Insistono per la seminfermità e soprattutto sperano nel procedimento contro i medici della struttura. «Se Nadia non fosse stata sola, forse oggi sarebbe viva».
Brescia, 29 giugno 2018 - «Quell'animale non si farà nemmeno un giorno di galera. Il concetto che passa con questa sentenza di assoluzione è che se vieni considerato matto puoi fare qualsiasi cosa senza che ti possa succedere niente». Giuseppa Perna e Salvino Pulvirenti sono i genitori di Nadia Pulvirenti la 25enne terapista della riabilitazione psichiatrica uccisa il 24 gennaio del 2017 con 19 coltellate all’interno della comunità Clarabella di Iseo, nel Bresciano, da un suo paziente, il 55enne marocchino Abderrhaim El Mouckhtari. L’uomo alcune settimane fa è stato assolto al termine del processo celebrato con il rito abbreviato. Per il giudice era incapace di intendere e volere al momento dell’omicidio. Il 55enne dovrà trascorrere 10 anni in una Rems, le strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari (Abderrhaim El Mouckhtari aveva già trascorso anni fa un periodo nell’opg di Montelupo Fiorentino per un’altra vicenda giudiziaria).
«Per noi non è così – spiegano i genitori della ragazza che per la prima hanno deciso di parlare con la stampa incontrando i giornalisti all’interno dello studio dell’avvocato Melissa Cocca, il legale che li ha seguiti insieme al collega Michele Bontempi –. Doveva essere riconosciuta la seminfermità: qualche mese prima aveva già tentato di aggredire un altro ospite della comunità ed era in una fase di stabilità mentale. Le responsabilità sono anche di chi lo ha seguito da un punto di vista medico e non ha garantito la sicurezza di Nadia che si è trovata da sola in una stanza con un orco di 2 metri». La Procura di Brescia ha aperto un fascicolo parallelo nei confronti di sette tra medici e responsabili della struttura di recupero. Concorso colposo in un reato doloso è l’ipotesi di reato contestata dal sostituto procuratore Erica Battaglia che alla fine dell’estate, una volta terminati gli ultimi accertamenti, dovrebbe chiudere le indagini.
«Non deve più accadere quello che è successo a nostra figlia – spiegano i genitori di Nadia –. Questi ragazzi non possono essere lasciati soli con persone così pericolose. Se ci fosse stato un altro terapista forse sarebbe rimasta soltanto ferita, forse non le sarebbe successo niente. Invece è morta. Me la immagino mentre urla e chiede aiuto senza che nessuno intervento. Da quel giorno per noi è finita: siamo in terapia, ma credo che non usciremo più da questo inferno». Giustizia è la parola che i genitori di Nadia ripetono dal giorno della sentenza. «Quel pomeriggio siamo stati al cimitero e sulla sua tomba ci siamo e le abbiamo chiesto se riusciremo mai a farle avere giustizia – raccontano i genitori della 25enne – Nadia era piena di sogni, aveva appena iniziato a convivere con il suo fidanzato, metteva sempre gli altri davanti a sé. Quel giorno l’hanno lasciato sola, abbandonata in una stanza a chi le ha strappato la vita. Vogliamo giustizia per lei e per impedire che qualche altro giovane che ha voglia di dedicare se stesso al lavoro che faceva nostra figlia possa anche soltanto correre il pericolo di subire ciò che è accaduto a Nadia».