Como, 16 settembre 2020 - Un complotto, la coalizione di chiunque gli ruotasse attorno per cacciarlo dall’Italia, il timore di essere seguito e minacciato. Ridha Mahmoudi, il tunisino di 53 anni arrestato per l’omicidio di don Roberto Malgesini, non si è mostrato minimamente pentito di ciò che ha fatto ieri mattina. Un’aggressione e una morte da lui decisa perché "era giusto così", secondo quanto dichiarato alla polizia della Squadra Mobile e davanti al suo avvocato, Davide Giudici, dicendo che il sacerdote era "morto come un cane". Affermazioni che l’uomo ha reso in uno stato confusionale, che ora dovrà essere meglio compreso per capire se dettato da ciò che aveva commesso, o se da un qualunque genere di disturbo. Dalle verifiche svolte ieri, non sono emersi problemi psichici certificati, ma solo un oggettivo timore di essere perseguitato e cacciato. Dal 2015 aveva accumulato sei denunce per violazione della legge sull’immigrazione, ma prima di questi anni difficili, Mahmoudi aveva avuto una vita regolare in Italia.
Arrivato nel ‘93 , dieci anni dopo aveva sposato una donna italiana, da cui aveva successivamente divorziato. Una fine del matrimonio che era coincisa con l’inizio dei suoi guai: la revoca del permesso di soggiorno, che aveva ottenuto per motivi familiari, le ripetute espulsioni, man mano appellate davanti al Giudice di Pace. La prima, del 2015, gli era stata annullata nel 2017 per motivi di salute. Durante un lavoro svolto in Sicilia, aveva avuto un problema agli occhi: una malattia che aveva spinto il giudice ad annullare l’espulsione. Ma successivamente una perizia medica aveva stabilito che la malattia poteva essere curata anche in Tunisia, consentendo quindi l’espulsione.
L’ultimo provvedimento risale ad aprile, ma non era stato possibile eseguirlo per la chiusura degli hotspot e il blocco dei voli a causa dell’emergenza covid. Mahmoudi nel frattempo aveva presentato l’ennesimo ricorso, che si sarebbe dovuto discutere ieri. E forse questa scadenza aveva ulteriormente accresciuto la rabbia dell’uomo, che tre mesi fa aveva acquistato il coltello da cucina, di grandi dimensioni, che si portava dietro, e che ieri mattina ha usato per colpire ripetutamente il sacerdote. Una persona a cui aveva chiesto aiuto e consigli, ma che riteneva comunque un suo nemico. Tuttavia, se alcuni aspetti dei suoi trascorsi sono chiari, su altri sono ancora in corso accertamenti, per capire con quale nome fosse noto all’anagrafe giudiziaria. Infatti il suo nome, e la sua data e luogo di nascita, compaiono anche con una variante: Ridha Mahmoudi Ben Youssef. A questa identità corrispondono, a partire dal 2005, denunce per resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio, e persino un maltrattamento. Reati per i quali erano state emesse piccole condanne, poi riunite in un cumulo di pene con sospensione condizionale. Se le verifiche per ricostruire il suo passato, e l’eventuale corrispondenza di queste due identità, sono ancora in corso, è però certo che almeno dal 2015 Mahmoudi ruotava attorno al mondo dell’assistenza ai senzatetto, ospite della parrocchia di Sant’Orsola, in viale Lecco, dove gli garantivano un posto letto.