Magni
altro mattino pioveva e strisciava una brezza più fredda. È stato così che il Carletto appena entrato al bar, dove già stavano chiacchierando alcuni amici, in attesa dell’aperitivo, era tremante, bagnato e arrabbiato con questo anticipo di autunno. Ha gridato: "Ue bagaj l’è propri già rivà el temp di per cott". La colorita rivelazione uscita dalla bocca del Carletto era metafora con la quale il mondo contadino indicava che ormai era giunto l’autunno e "i dé di mort": il tempo di chiudersi in casa davanti al camino scoppiettante. Allora si cuocevano in un bel pentolone appeso sopra le fiamme quelle piccole pere che il generoso frutteto della cascina offriva alla fine dell’estate. I “pirett“ però non maturavano mai del tutto ed “eran dür mè un sass“. E così la “resgiura“ li cuoceva. Poi venivano servite dopo la cena, o magari dopo la frugale merenda del pomeriggio, magari un po’ spruzzati di zucchero: una vera leccornia che ancora mi emoziona quando ricordo “i pirett cott“ di mia nonna contadina. Erano buoni anche freddi. Poi i contadini bevevano pure l’acqua di cottura alla quale venivano attribuiti più benefici terapeutici: contro il mal di testa, regolazione dell’intestino, pure efficace per tosse e raffreddore. A suggerirmi “el temp di peritt cott“ è stato l’amico Luis de Melz (Luigi Manzoni di Melzo) il quale parlando del dialetto milanese ne "sa una più del diavolo". Luis ha però aggiunto che per il giorno dei morti (2 novembre) nel mondo contadino vi era l’usanza di mangiare la “tempia del purcèll“ lessata. La tempia (versione dialettale) era quello che adesso vien chiamato guanciale, ovvero una parte del muso dell’animale. Francesco Cherubini nel suo dizionario del dialetto milanese, spiega che la tempia era cucinata con i “scisger“, i ceci: buonissima, una vera leccornia. Una porzione di tempia cucinata veniva posta, la sera, fuori dalla finestra, per i morti. Mi ricordo però che al mattino non c’era più. Ci aveva pensato a sbaffarla un mio cugino più grande.
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