È un rapporto che assume due volti quello tra imprenditori lombardi e ‘ndrangheta. Da una parte, c’è una sottomissione del mondo politico ed economico motivava dal “sistematico ricorso all'intimidazione mafiosa”. Dall’altra, invece, c’è una ben più preoccupante “reciproca convenienza con il sodalizio mafioso”. È questo, in estrema sintesi, il contenuto delle motivazioni dei giudici della sentenza nell’inchiesta “Cavalli di razza” hanno inflitto otto condanne fino a 16 anni di carcere, anche per associazione mafiosa, su richiesta dei pubblici ministeri Pasquale Addesso e Sara Ombra.
La struttura locale
La ‘ndrangheta in Lombardia sfrutta una “fama criminale decennale”, “nuove reclute” e – hanno scritto i giudici – un modello organizzativo “di rete”, in cui “alla sostanziale stabilità degli organi di vertice si affianca l'autonomia delle strutture territoriali, e, in buona misura, delle distinte famiglie, capaci di convivere, dividendosi le aree di influenza, anche nel medesimo contesto territoriale, in cui talora non mancano forme di competizione e il perseguimento degli interessi individuali si fonde con il comune interesse alla sopravvivenza e prosperità dell'associazione”.
La connivenza dell’imprenditoria
A 16 anni e 10 mesi è stato condannato Daniele Ficarra, pena di poco inferiore (16 anni) per Antonio Carlino e per Alessandro Tagliente, pesanti le condanne per un impianto accusatorio che ha retto davanti ai giudici di primo grado. Nelle oltre 300 pagine si riconosce al processo la capacità di aver consentito di osservare “l'espansione, le scissioni e il volto proteiforme assunto oggi dall'associazione in territorio lombardo”.
Le famiglie criminali sono riuscite ad acquisire il controllo di grossi pezzi dell’economia locale “attraverso il sistematico ricorso all'intimidazione mafiosa”, complice anche un terreno “fertile offerto dal mondo imprenditoriale, politico e professionale locale, resosi disponibile, talora piuttosto sprovvedutamente, talaltra con malaccorta avidità ad entrare in rapporti di reciproca convenienza con il sodalizio mafioso”.
Non più infiltrazione, ma radicamento
L’inchiesta, di fatto, ha “sfatato il falso mito della ‘ndrangheta, che come un male serpeggiante si infiltra in un tessuto economico sano, contaminandolo. La realtà restituita dal presente processo è quella di un'imprenditoria che non si limita a ‘subire’ la 'ndrangheta, ma si pone in affari con la stessa, spesso prendendo l'iniziativa per il contatto con la criminalità organizzata e ricavandone (seppure solo momentaneamente) vantaggi”.
Siamo, in altre parole, ben oltre la logica dell’infiltrazione mafiosa: quello presente in Lombardia è un vero e proprio radicamento della ‘ndrangheta che è stato “determinato o, quantomeno, agevolato dal terreno fertile offerto dal mondo imprenditoriale, politico e professionale locale, resosi disponibile”.
L’imprenditore e il figlio del boss
Nelle motivazioni della sentenza il Tribunale definisce anche “sconcertante” la “testimonianza dell'allora amministratore delegato” di Spumador, che “pur pienamente a conoscenza del clima instaurato dai Salerni e delle vessazioni subite, scelse di rimanere sostanzialmente inerte”.
In un altro passaggio delle oltre 300 pagine della sentenza i giudici spiegano anche perché hanno assolto il figlio del boss Iaconis. È escluso, si legge, che l'appartenenza ad una associazione mafiosa “possa ritenersi trasmessa di padre in figlio per una sorta di proprietà transitiva automatica e sorretta da presunzione assoluta, in mancanza di qualsivoglia altro inequivocabile elemento”.