Eupilio (Como) – «C’era una trattativa in corso per la cessione della ragazza, si parlava di 700 milioni, ma poi ci ha detto che avevano dovuto buttarla nell’immondizia perché era morta». È l’unico momento in cui il collaboratore di giustizia Antonino Cuzzola si commuove e fatica a proseguire, nella sua lunga e precisa testimonianza davanti alla Corte d’Assise di Como, dove è in corso l’ultimo stralcio del processo per il rapimento e l’omicidio di Cristina Mazzotti, avvenuti nell’estate del 1975.
Affiliato all’ndrangheta in carcere, passato sotto la tutela dei Paviglianiti negli anni Settanta, Cuzzola alle spalle ha una quantità incalcolabile di omicidi, commessi tutti su ordini che arrivavano dai suoi referenti e che eseguiva senza discutere. Di tanto in tanto ne ricorda qualcuno, fa i nomi e le date: «A quello avevamo sparato con il kalashnikov in casa sua, davanti alla sua famiglia…», oppure «Siamo andati in un campo e li abbiamo ammazzati tutti e due, perché se in quel momento c’è un altro deve rimanere a terra pure lui».
Uccisioni di persone che hanno tradito, che volevano espandersi nei territori gestiti dai calabresi, che parlavano troppo. Tra i tanti compagni di carcerazioni, Cuzzola si trova nel 1976 a Porto Azzurro, dove conosce Franco Ciccio Gattini, uno dei primi arrestati per il rapimento Mazzotti. Lo stesso carcere dove un giorno arriva Giuliano Angelini, capo dei carcerieri che avevano gestito Cristina, che aveva collaborato alle indagini. «Gattini – prosegue Cuzzola – non si capacitava che lo avessero portato lì. Ha detto che dovevamo ucciderlo, così siamo andati nella sua cella, visto che il carcere all’epoca era aperto. Non c’erano agenti, Angelini era ubriaco come al solito. Così ha raccontato della trattativa, dei soldi, e di come era morta. Diceva che la ragazza quando sentiva passare le auto si ribellava, così le avevano messo il valium nella bottiglietta d’acqua e qualche pastiglia per tenerla calma. Si vede che erano troppe, la ragazza è morta».
E qui il racconto di Cuzzola si interrompe per alcuni minuti, la voce spezzata dalla commozione per la fine di quella diciottenne mai più tornata a casa. Una reazione che colpisce, rispetto alla semplicità e freddezza con cui ha elencato una quantità di omicidi commessi in ambito criminale, sapendo a malapena chi fossero i soggetti condannati a morte, mentre eseguiva ordini dei suoi capi. Nel frattempo, la Corte d’Assise ha deciso l’estinzione del reato per morte del reo di uno dei quattro imputati, Giuseppe Morabito, deceduto il 29 novembre a 80 anni a Varese. La famiglia aveva chiesto di poter arrivare fino alla fine, nella speranza di ottenere una sentenza di assoluzione e preservarne la memoria.