Como, 29 luglio 2018 - Cantautore, scrittore, spirito libero. In un Paese in cui andare controcorrente non è per forza un merito, neppure tra gli artisti, Davide Van De Sfroos non ha mai rinunciato alla sua originalità. All’inizio dei ’90, mentre il mondo scopriva i Nirvana e nasceva l’epoca del grunge, il ragazzo nato a Monza, trapiantato sul lago di Como e cresciuto con il punk, iniziava a comporre i suoi primi pezzi in dialetto lombardo anzi in laghee, il vernacolo come si parla in Tremezzina. Ballate struggenti ispirate ai venti del lago, la Brèva e il Tivàn, racconti di contrabbandieri, di fughe e ritorni. Difficile comprenderlo, impossibile non starlo ad ascoltare e negli anni sono arrivati il Premio Tenco, la partecipazione a Sanremo e un concerto a San Siro nel giugno dell’anno scorso.
L’estate è per eccellenza la stagione della musica, come la vive Davide Van De Sfroos?
«Questa estate sto cercando un mio ritorno alle origini. Anche musicalmente. Tra Forum, Sanremi, sinfonie, negli ultimi anni sono stato spesso fuori. Quest’anno ho deciso di ridare fiato al ragazzino con la chitarra cresciuto con lo spirito del folk. Sto girando la Lombardia insieme a un mio amico violinista con uno spettacolo, «Kunta e Kanta», che vuole abbattere la barriera tra palco e pubblico. Adesso stiamo attraversando la Valtellina, ma la prossima settimana sarò dalle parti di Parma. Certe volte mi accompagnano i miei tre figli, vorrei che assaporassero un tipo di sound diverso».
Come era alla loro età?
«Per me l’estate coincideva con le vacanze degli altri. Ricordo il profumo del tiglio che annunciava la fine della scuola e poi i fuochi di San Giovanni sul lago che sancivano l’inizio delle vacanze. D’estate il tempo si dilatava, c’erano pomeriggi interi da riempire leggendo i fumetti, poi sono arrivati i libri e i dischi, anzi le musicassette che ognuno si faceva in casa. Ho la fortuna di abitare in un posto benedetto, d’estate arrivano gli amici che avevano la seconda casa e a quel punto ci si trovava dentro le vacanze altrui. Ero l’indigeno finché non partivo anch’io per il mare, stavo via due settimane e quando tornavo mi sentivo Ulisse».
E poi ogni estate aveva la sua colonna sonora, indimenticabile. Quelle di oggi non le sembrano tutte uguali?
«Oggi domina il rap, chiunque può sbizzarrirsi e raccontare la sua realtà, ma è semplice solo all’apparenza. Ci sono quelli bravi, quelli che improvvisano e quelli che farebbero meglio a cambiare mestiere. Aver ascoltato ogni genere di musica, dalla classica fino al punk, mi aiuta a riconoscere i talenti, i geni, i grandi musicisti. Non è vero che i contenitori sono scarsi a priori. Dire che il metal è solo baccano è come dire che la lirica è solo gente che grida. Poi c’è il rock che è infinito».
È cambiata la musica o è solo una moda?
«È cambiato il modo di proporre la musica. Prima c’erano i concept album, adesso si va molto di singolo, hanno recuperato addirittura il vinile perché la gente vorrebbe avere qualcosa di fisico. Il rap c’era anche ai miei tempi e prima c’era il talking blues. L’importanza del testo è finita in secondo piano, c’è sempre il tormentone della canzone latina: ha a che fare con l’estate ed è virale. Non tutti sono allo stesso livello, il fenomeno Rovazzi ad esempio: si vede che è un appassionato di cinema, è un grande fantasista ed è capace di inventare. Le sue canzoni vanno forte d’estate perché creano delle mode, come i racchettoni, le espadrillas tutte cose che se uno ci pensa bene sono divertenti, ma pericolosissime».
Lei invece è sempre stato allergico alle mode, anche a costo di sembrare fuori tempo.
«Non mi interessava essere contromano, ero determinato a spendere la mia musica e le mie canzoni per raccontare una terra in modo antropologico. Per i miei gusti c’era un po’ troppo amore nella musica italiana, io preferivo le storie di persone che sono partite e ritornate, oppure non si sono mai mosse dalla loro terra, ho scritto canzoni sui gesti o il lavoro, spesso in modo ironico, altre volte usando la poesia. Non c’è un filo conduttore se non che ho sempre scelto quello che volevo raccontare».
Anche a costo di essere etichettato come il cantautore della Lega?
«Il capitolo più faticoso è stato quello di dover affrontare sempre questi pruriti politici, tutto quello che ho voluto essere è scritto nelle mie canzoni. Ho partecipato a feste di un colore anziché di un altro, quando mi invitano dicevo che quella era un’isola, non volevo fare il saccente. Cerco di essere limpido andando avanti, cercando di mantenere una lucidità e una equidistanza. La politica mi fa paura perché la capisco poco, per me è difficilissimo guardare un telegiornale. Ho fiducia nel cambiamento, le persone salgono e scendono, non è vero che tutti quando entrano in politica si sporcano. Io mi sono basato sul cantare le persone cercando di guardare alla loro anima, raccontando di cos’è fatta la vita. Tutte le altre considerazioni le lascio agli esperti di politica. Sono un contadino e cerco di innaffiare l’orto, trapiantare le cose».
Non sarà un modo di arrendersi?
«È diventato un mondo di giustizieri e di sceriffi, sono tutti opinionisti, senza avere una preparazione culturale, si diffondono idee false e pericolose in un modo virale e inquietante. Anch’io utilizzo i social, ma nei miei post cerco sempre di mettere qualcosa che sia costruttivo e non faccia male a nessuno. C’è gente che è molto brava a condannare, poi ci sono delle persone che si dedicano a sorreggere chi è stato colpito e pulire. Non sono un uomo di certezze, sono spaesato di fronte a molte cose e cambio spesso idea, potrei dire una cosa oggi e il contrario domani. Non voglio confondere anche gli altri e per questo spesso mi trattengo sui social».
Eppure lei è un punto di riferimento per tutti i tuoi fan. Cosa ha in serbo per loro?
«Proprio in questi giorni hanno ristampato un vecchio libro di racconti, Ladri di foglie, per Nave di Teseo e in autunno ho in preparazione un altro libro, poi ci sono un po’ di canzoni nel cassetto. La mia grande passione sono i nostri mondi, i laghi, i monti dove puoi ancora incontrare personaggi irriducibili che fanno lavori che sembrano da pazzi. Sono gli spaesati, fanno parte di un grande popolo che sembra non esserci più e invece c’è ancora. «Sembriamo senza tempo e senza pace, ma chiamerete noi quando andrà via la luce», ho scritto in una canzone che ho dedicato a loro, «Siamo stati gli emigranti e i ritornanti, vi abbiamo riempiti i libri quando eravamo ignoranti». Forse la verità è oggi come oggi ci sentiamo tutti un po’ spaesati. Dopo una settimana vissuta nelle città dove ogni cosa è tecnologia, sentiamo il desiderio di andare in cima a una montagna. C’è qualcosa che non quadra».