Crema (Cremona), 17 aprile 2020 - "Sono in mezzo a una guerra. Con la differenza che in guerra senti scoppiare le bombe e vedi in faccia il nemico". Per i giudici della Corte d’Assise di La Spezia è imputata dell’omicidio del fratello Marco, avvocato affermato, morto a 51 anni il 25 settembre del 2015. Devastato dal cancro e finito, secondo l’accusa, da lei, la sorella, con una iniezione letale di sedativo per il timore di essere estromessa dal testamento. "Quella mattina Marco ha avuto una crisi respiratoria fortissima. Il palliativista sarebbe arrivato solo nel pomeriggio. Sotto la sua guida ho eseguito la palliazione. Mio fratello è morto nella serata", la tenace difesa di Marzia Corini, 56 anni, medico anestesista dell’ospedale di Pisa. È uno dei medici che hanno risposto all’appello della Lombardia contro il coronavirus. Ogni giorno in prima linea all’ospedale di Crema. Alle spalle anni sui fronti di guerra in Afghanistan, Pakistan, Siria, Sudan, Centro Africa, quasi sempre con Medici senza frontiere, e con la Croce rossa di Ginevra, in Cambogia con Emergency, in Bolivia, in Zambia.
Quando ha deciso di dare la sua disponibilità? "Ai primi di marzo ero a Spezia a casa di Marco. La mamma è morta. Ho il divieto di espatrio e non posso tornare a Cayenna e riprendere il mio lavoro. Come anestesista mi era impossibile restare sul divano mentre si consumava questa tragedia. Ho chiesto ai miei avvocati se potevo saltare qualche udienza del processo e ho mandato il curriculum a un sito della Regione Lombardia. Non ho espresso preferenze di sede. Mi hanno chiamata in ventiquattr’ore per Crema o Busto Arsizio. Abbiamo deciso che l’emergenza più grossa era a Crema. Ho parlato con due primari, ho raccontato la mia storia, il processo. Mi hanno risposto che non c’erano problemi. Sono arrivata il 14 marzo, i tempi tecnici per la delibera di assunzione. Per me era un atto volontario e assolutamente gratuito". Che situazione ha trovato? "Choccante anche per me che conosco gli ospedali del Terzo Mondo. La prima sera ero sconcertata. Dovunque mi voltassi vedevo un paziente con il respiratore. Fino a quel giorno la media degli accessi era stata di quaranta al giorno. La maggior parte dei reparti era stata chiusa per far posto a letti-Covid. Di fatto quello di Crema era un ospedale Covid. In pochi giorni si era riusciti a passare da otto a sedici letti di terapia intensiva, più altri tre nell’ospedale da campo realizzato dai militari". I malati, i parenti . "In un reparto di rianimazione il rapporto fra il medico e il paziente non è mai diretto. Qui il distacco è caduto. Con quelli che facevano la ventilazione non invasiva ho trovato le persone reali, vere, che mi raccontavano le loro storie. Mi sono quasi accanita per tenere vivo un signore sulla sessantina. Aveva sopportato l’insopportabile con la ventilazione non invasiva. Accettava tutto, con gentilezza, con un sorriso. Poi abbiamo dovuto intubarlo. Sta morendo. C’è una ragazza di vent’anni sola in casa perché i genitori sono ricoverati. Siamo spesso noi a chiamarla, non solo per darle notizie ma anche per sapere come sta. I parenti si aggrappano a ogni tua parola. Tu vorresti che fosse sempre una parola di speranza e non può essere". Cosa le lascerà questa esperienza? "Mi lascerà la sensazione che non siamo invulnerabili e che la guerra non è solo quella che si combatte con le armi". Tornerà il aula alla ripresa del processo? "Prima che venisse sospeso per l’emergenza Coronavirus non ero mancata a una sola udienza. Sentirò i miei avvocati. Qui mi hanno chiesto se voglio fermarmi per sempre. Rimarrò finché ci sarà bisogno di me".