FRANCESCA GRILLO
Cronaca

Incubo adozioni in Lombardia, prigionieri dell’Etiopia: "Aiutate quei bambini"

Addis Abeba vieta l’uscita di minorenni dal Paese. Scatta l’appello di cinquanta famiglie

Adozioni, difficoltà dall'Etiopia

Milano, 23 aprile 2019 - Chi adotta un bambino è preparato: lo sa che l’attesa sarà lunga, la burocrazia lenta, i tempi dilatati e quei mesi ad aspettare, «quando sei fortunato», dicono i genitori, sembrano un’eternità. Mesi passati tra udienze con i giudici, colloqui con i servizi sociali, viaggi e speranze di avere i timbri giusti sulla pila di documenti che attesta di essere diventati genitori. Cinquanta coppie sono arrivate a quel punto, a un passo prima di essere assegnati a un bambino, ma si sono sentiti dire «niente da fare, adozioni chiuse» dal governo etiope. Sì, perché queste coppie, la maggior parte in Lombardia, hanno deciso di adottare bimbi che arrivano dall’Etiopia, riconosciuti come «abbandonati, perché le famiglie per povertà non riescono a prendersene cura, oppure semplicemente questi bambini non hanno più la mamma e il papà o altri parenti», racconta Tiziana Pozzoli, referente del Cae, Centro Aiuti per l’Etiopia.

Un’associazione che da anni si occupa non solo di adozioni internazionali, ma anche di tanti progetti a sostegno delle popolazioni etiopi. All’origine della decisione di chiudere le adozioni, presa dal Ministero delle donne, l’organo competente, ci sono due motivazioni: la prima è drammatica, seppur con numeri bassissimi. «Si sono verificati alcuni casi di maltrattamenti – spiega Tiziana –: è terribile, anche se i casi su migliaia di bimbi sono stati pochissimi, negli Stati Uniti. Assurdo punire tutti i genitori». Il secondo motivo ha sapore di patriottismo: «Il governo etiope dice che deve essere lui a occuparsi dei propri figli – prosegue la referente del Cae –, e la considerazione ha il suo senso, noi siamo i primi a volere che i bambini rimangano nel loro contesto. Ma se le famiglie non possono occuparsene, perché destinarli a una vita in orfanotrofio? In più, gli istituti stanno chiudendo per mancanza di fondi pubblici».

Il risultato è che tanti bambini stanno finendo per strada, con un angosciante destino segnato: ogni giorno circa mille muoiono di fame. «L’Etiopia ha chiuso ogni dialogo, ormai da quasi due anni, da quando è entrata in vigore questa legge. Abbiamo mandato email, richieste di incontri, coinvolto le ambasciate, abbiamo parlato anche al Senato italiano per chiedere una partecipazione e un aiuto concreto», parlano le coppie che hanno in mano il foglio giusto, quello con il timbro che dice che possono essere assegnati a un bambino abbandonato e che dopo tanta fatica per ottenerlo si trovano davanti a un muro. «Il nostro fascicolo di adozione internazionale ha ricevuto l’ok dall’ambasciata etiope, quindi la regolarità di tutto quello che abbiamo prodotto – racconta una mamma adottiva, Bianca Festa –. Ci sono tanti bambini che sono lì ad attendere le proprie famiglie».

Genitori che hanno affrontato tutto l’iter: «Chi decide di adottare – spiega Tiziana – fa domanda al Tribunale dei minori che emette una dichiarazione di idoneità. Poi si passa ai servizi sociali con i colloqui e si torna davanti ai giudici che emanano un decreto mettendo eventualmente limiti di età – non ci devono essere più di 40 anni di differenza tra genitori e bimbo –. Poi, entro un anno deve conferire l’incarico a un ente autorizzato, suggerito dalla commissione adozioni. Ancora colloqui, la documentazione passa all’ambasciata italiana ed etiope. Il Ministero delle donne prende fascicolo e inizia l’altro iter». E ancora: «Se il fascicolo è in regola, si propone l’abbinamento con un bimbo abbandonato, si passa alle udienze al tribunale di Addis Abeba, altri colloqui e se giudice dà l’ok si può finalmente andare a prendere il bambino. La famiglia viene poi sottoposta a un’osservazione di un anno da parte dei servizi sociali». Insomma, il percorso è lungo e faticoso. «Quello che chiediamo al nostro Governo è di darci una mano – lanciano l’appello i genitori –. Vogliamo solo portare a casa questi bambini: hanno diritto a una vita con una famiglia».