
Cinzia Fumagalli ha combattuto una dura battaglia
Trezzo sul'Adda (Milano) - Cinzia Fumagalli ha seguito il calvario della figlia Lucrezia passo a passo. E ora che ne è fuori si spende per le altre famiglie che combattono contro anoressia e bulimia.
Come ha scoperto la malattia di sua figlia?
"Di colpo. È stato uno choc. Lucrezia è tornata da un viaggio in Francia irriconoscibile. In poco tempo, a 18 anni, aveva perso 20 chili. Oggi ne ha 28. Alle elementari aveva avuto attacchi di panico, era stata seguita da uno psicologo e sembrava tutto risolto. Prima che partisse quando tornavo dal lavoro di sera c’era la dispensa vuota, ma lei mi raccontava che erano venuti i suoi amici a trovarla. È stato dopo la trasferta Oltralpe che il corpo è cambiato".
All’anoressia è seguita la bulimia?
"Sì ed è ancora più subdola. Dopo il rientro a casa aveva riacquistato peso e io credevo stesse meglio. Invece si abbuffava di nascosto. È arrivata a vomitare 20 volte al giorno. Questa è una malattia che insegna a mentire. Tra noi c’era un rapporto di confidenza, poi sono cominciate le bugie. Finché Lucrezia mi ha raccontato che sentiva un enorme vuoto dentro da riempire con qualsiasi cosa capitasse, cetrioli o nutella. Solo quando il frigo era vuoto si placava e allora andava in bagno ‘a vomitare il dolore’, diceva lei".
Sentiva che sua figlia rischiava la vita?
"Io sì, lei no. Le ragazze con disturbi alimentari vanno incontro alla morte nello stesso modo in cui si va incontro alla vita. Tutte raccontano che non sentono nulla e le mamme, o almeno io, ero diventata un pungiball".
Quando c’è stata la svolta?
"Quando dopo il giro delle sette chiese, di ospedale in ospedale per due anni e mezzo, mia figlia ha toccato il fondo: voleva farla finita. È stato allora che abbiamo bussato alla porta giusta: Villa Miralago, a Varese, il centro di cura della Regione. In quasi un anno di ricovero l’hanno aiutata a ricostruire gli strumenti per affrontare se stessa e il resto del mondo. Ma è stata dura abbiamo dovuto superare il molok burocratico e l’idea di essere un costo per gli altri: non c’erano soldi. Nel centro per i lombardi ci sono solo 25 posti. Ne servirebbero molti di più".
Di cosa hanno bisogno le famiglie che affrontano questo dramma?
"Di accorciare i tempi perché nella ricerca di una struttura si gioca davvero la vita dei ragazzi. Senza potassio perché non mangiano può venire un infarto da adolescenti. E poi servirebbe un ponte fra la comunità e il ritorno al quotidiano: un posto dove studiare e lavorare, un filtro prima di camminare ancora solo sulle proprie gambe".
Quali sono gli errori da evitare?
"Tergiversare. Credere che tutto si risolverà. Bisogna chiedere aiuto fin dai primi segnali: vestiti larghi, fughe durante i pasti, isolamento. Ed evitare di proiettare i propri sogni su di loro. Per chi come me ha cresciuto una figlia da sola non è stato facile. Nell’anoressia vedi la tua bambina su una barchetta in un mare in tempesta e non puoi aiutarla. È necessario tagliare il cordone ombelicale. I problemi con il cibo sono un grido di dolore ma tu da mamma non lo sai".