Milano, 16 dicembre 2023 – La prima prigione è un box a Cesano Boscone. Dopo una ventina di giorni la cascina di Alfonso Amante, a San Giorgio su Legnano. Il viaggio senza ritorno sull’Aspromonte. Ma come muore Augusto Rancilio, sequestrato la mattina del 2 ottobre del 1978, di fronte al cantiere di famiglia?
C’è un monumento giudiziario che è anche un affresco della storia e dell’attività criminale della ‘ndrangheta in Lombardia: redatte dal giudice estensore Maria Teresa Bruno, sono le oltre tremila pagine della motivazione della sentenza del processo “Nord Sud“, davanti alla Corte d’Assise di Milano, scaturito negli anni Novanta dalle fluviali rivelazioni di Saverio Morabito.
Importante la testimonianza di Amante che, osserva la sentenza, "in questa sede processuale per la prima volta ha raccontato altri particolari sulla morte di Augusto Rancilio" appresi da Giuseppe Mammoliti.
Vigoroso, atletico, praticante di karate, la mattina del sequestro Augusto lotta con tutta la forza dei suoi 26 anni prima di essere sopraffatto. Nemmeno sull’Aspromonte accetta lo stato di prigioniero.
Secondo il racconto di Amante, è tenuto in una zona tra Castellace e Oppido Mamertino. Durante un’operazione dei carabinieri, Rancilio viene nascosto in un tubo di cemento. Tenta di reagire e il suo custode gli spara. Il corpo viene abbandonato in un primo tempo nei pressi di un canale, fino a quando lo stesso Mammoliti, sceso per rendersi conto dell’accaduto, gli dà sepoltura.
"Amante – annota la sentenza – a suo dire, seppe anche che l’uomo che aveva ucciso Rancilio, tale ‘Peppe Lampo’, sarebbe stato a sua volta vittima di un attentato, deciso dal gruppo Muià (la batteria di Baggio organizzatrice del sequestro, ndr ) per punirlo; l’uomo si sarebbe però salvato, non avendo riportato ferite mortali".
Il compito di avviare le trattative con Gervaso Rancilio, il padre di Augusto, è stato affidato a Michele Amandini. La cinica, crudele strategia della banda ha previsto una prima telefonata per intimare di preparare il denaro, poi un’interruzione delle comunicazioni per far attendere la famiglia, farla soffrire. Non si smuove nulla. Terribile la testimonianza dell’avvocato Giovanni Maria Dedola, il legale che dopo dieci o quindici giorni dal rapimento svolge una intermediazione tra i Rancilio e i sequestratori. Al processo riferisce di avere avuto subito "la sensazione che i rapitori non fossero in grado di offrire la prova dell’esistenza in vita del rapito".
Le telefonate assumono "ben presto connotazioni macabre". Il legale, intuito che Augusto è morto, chiede ai rapitori di fare "avere alla famiglia la testa del loro congiunto deceduto: secondo quanto egli (l’avvocato, ndr) ha specificamente ricordato, i rapitori offrirono in cambio un arto, che avrebbero fatto avere in cambio di denaro".