GIULIO MOLA
Cronaca

Tratta dei calciatori: un posto in campo, ma con l’Isis

Storie e volti dei giovanissimi africani che per inseguire il mito del pallone sono finiti nelle mani di bande criminali e terroristi

Alcuni giovani calciatori nigeriani

Milano, 4 febbraio 2020 - Inseguendo la.. . palla promessa. Sulle orme di Didier Drogba, Samuel Eto’o o Mohammed Salah, per citare tre figli dell’Africa diventati campioni. Migliaia sono i ragazzini illusi dalle false promesse dei trafficanti di “carne umana“, che lasciano il continente nero con un grande sogno. Pagano, viaggiano (con biglietto di sola d’andata), aspettano. E alla fine si trovano a vivere un incubo. C’è chi arriva a destinazione (Italia, Svizzera o Francia) e deve sperare. Pregare. Perché il rischio è quello di finire nel giro delle scommesse o della prostituzione, addirittura neltraffico d’organi. Criminalità vera. Ma c’è pure chi finisce per trovarsi in situazioni inimmaginabili. Basta ricordare la vicenda di Yao, giovane ghanese protagonista di una vicenda che ha dell’incredibile: fisico imponente e piedi “educati“, appena sbarcato in Europa fu convinto da uno pseudo-agente di calciatori a cambiare percorso e a volare a Tel Aviv per un provino. Il “falso“ scout in realtà faceva ben altro tipo di selezioni, ovvero cercava giovani da trasformare in guerriglieri jihadisti nel cuore d’Israele.

«Appena capii di che cosa si trattava, scappai utilizzando ogni mezzo di trasporto possibile, percorsi in due mesi più di 7mila chilometri... Ma altri miei amici non sono più tornati", la denuncia del ragazzo a Football Solidaire, associazione con sede a Parigi che protegge i giovani calciatori. Il problema è che non è facile, per i ragazzi e le loro famiglie, distinguere fra osservatori seri e falsi agenti Fifa, che in giro per i campi polverosi delle nazioni più povere dell’Africa, arruolano adolescenti con eccitanti promesse.

Uno schema ben preciso quello seguito dai trafficanti di esseri umani, che spostandosi fra Nigeria, Liberia, Camerun persuadono i genitori a farsi affidare i figli, anche di 12-14 anni, per poi, una volta entrati in Europa, abbandonarli al proprio destino in una stanza d’albergo (nella migliore delle ipotesi). Molti ragazzi restano soli e senza documenti, altri accettano di essere “dirottati“ in India, Nepal, Cambogia, Mongolia e Laos. Intravedono un miraggio, campionati come trampolino di lancio verso il successo in Europa. E invece si tratta di territori spesso spietati dove i ragazzi, ancor di più sono esposti allo sfruttamento. “Ostaggi“ dei propri sogni che vanno in frantumi e di approfittatori criminali senza scrupoli.

È quanto accaduto a diciassette adolescenti liberiani, ingaggiati da minorenni per poter poi essere rivenduti (da maggiorenni) ad altre squadre. Nel frattempo erano tenuti prigionieri in un’accademia non ufficiale legata al Champasak United, una società sportiva che giocava nel Laos. All’arrivo nel Paese asiatico, il club aveva sequestrato i passaporti dei calciatori. I quali, dopo la scadenza (1 mese) dei permessi di soggiorno regolare, non lasciavano mai le altre strutture della società per paura di essere fermati dalla polizia. Kesselly Kamara, all’epoca dei fatti 14enne, giocò qualche partita dopo essere stato obbligato a firmare un contratto di sei anni che prevedeva anche un compenso. In realtà, Kamara come tutti gli altri ragazzi dell’accademia non riceveva soldi né coperture previdenziali.

Anzi, lui e i suoi compagni di squadra venivano trattati in modo indegno, costretti a dormire per terra, su materassi logori, tutti in una stanza senza finestre, nelle strutture dello stadio e dell’accademia. I calciatori ricevevano due pasti al giorno, pane al mattino e riso al pomeriggio. E in tanti hanno contratto tifo o malaria. Lo sporco business si completava quando il Champasak poteva legalmente trasferire i ragazzi (maggiorenni) ad altri club . Incassando.

Non troppo diversa la storia di di Moshoood Afolabi, calciatore nigeriano. Anche lui fu convinto da un “agente“ che riteneva amico ("Gli facevo le faccende domestiche e gli tagliavo l’erba di casa sua") a trasferirsi in Asia, a Ulan Bator, capitale della Mongolia. "Fai un anno al Khovd Western FC e poi ti porto in Europa", la promessa. "Ma io sognavo la Premier, la Liga o la serie A", confessa Afolabi, che in precedenza aveva già rifiutato il trasferimento in Mozambico. E invece il ragazzo si fece convincere: pagò 1.600 dollari per le spese di viaggio e visto, ma dopo un mese di soggiorno è cominciato l’inferno. Niente rinnovo, e nessuna traccia dello stipendio di 200 euro mensili. Eppure sul contratto in cirillico-mongolo c’era scritto ben altro. "Per fortuna il presidente mi offrì un lavoro come lavapiatti, così mi allenavo e poi andavo al ristorante". A fine contratto c’è voluto l’intervento del papà e del nonno di Afolabi, che dopo aver venduto due terreni in Nigeria hanno pagato le spese (1.600 dollari) in sospeso. Ma non bastava, servivano altri soldi per ottenere il “visto“ e per riportare Afolabi a casa. Solo dopo l’intervento dell’Onu e del dipartimento d’immigrazione il giovane nigeriano ha ottenuto il rimpatrio. "Avevo altri sogni, la mia avventura è stata triste... Voglio l’Europa".