Guido Bandera
Cronaca

Caorso, l’ex centrale nucleare in smantellamento dal 1999. Servono altri 7 anni e 350 milioni di spesa

Tredici chilometri da Piacenza, tredici da Cremona, raffreddata dal’acqua del Po, nel cuore del consumo energetico del Nord. Per accenderla 468 miliardi di lire del 1981. E il conto lievita ancora

Caorso, l'ex centrale a 13 chilometri da Cremona

Caorso, l'ex centrale a 13 chilometri da Cremona

Milano –  L’ultima volta in cui l’Italia ha sognato di costruire un impianto termonucleare di moderna concezione risale a oltre cinquant’anni fa. Fra il 1970 e il 1978 l’Enel, allora ente pubblico e monopolista del settore elettrico, affidò all’Ansaldo la costruzione del più grande reattore italiano su tecnologia dell’americana General Electric. Oltre 468 miliardi di lire di denaro pubblico dell’epoca, per un impianto che aveva richiesto 10 milioni di ore di lavoro, capace di assorbire 30mila tonnellate di ferro, settemila di macchinari, per l’impegno durato 5 anni da parte di 350 tecnici capaci di attivare un sistema che forniva a regime 840 megawatt di potenza, ovvero 5 miliardi di Kilowatt all’anno. La centrale nucleare ad acqua bollente di Caorso, tredici chilometri da Piacenza, tredici da Cremona, raffreddata dal’acqua del Po, nel cuore del consumo energetico del Nord, cominciò l’esercizio regolare nel 1981. Nel 1986 si spense per ricaricare il combustibile.

Nel 1987 il referendum sul nucleare ne decretò la fine, decisa formalmente nel 1990. Da allora i suoi impianti moderni, le sue attrezzature con costi mai ammortizzati, gli edifici capaci di resistere a ogni terremoto e a venti fino a 300 chilometri orari si sono trasformati in rifiuti.

Da venticinque anni Sogin, l’azienda pubblica che lavora a cancellare i resti del nucleare in Italia, che gestisce scorie e decommissioning degli impianti, ha iniziato a smontare il reattore di Caorso. Il più vicino a Milano e alla Lombardia, affacciato sulle campagne del Lodigiano. Per arrivare alla fase che i tecnici chiamano del “brown field“, ovvero del campo di terra, ci vorranno altri sette anni. E ancora 350 milioni di euro di denaro del contribuente. Qui ci sono ancora oltre novecento metri cubi di rifiuti radioattivi, destinati a essere trattati e tombati, quando esisterà, nel deposito nazionale delle scorie che l’Italia non ha (ancora) costruito, pur avendo diffuso un documento in cui si indicano le zone adatte ad ospitarlo. Nel frattempo, altri lavori attendono i 91 dipendenti di Caorso e quelli delle aziende esterne.

Fra le cose principali da fare, la demolizione dell’edificio del reattore che ancora svetta sulla campagna, il più contaminato e il più grande, con la sua struttura mastodontica e l’armatura da 500 chili di ferro per metro cubo di calcestruzzo. Dentro ci sono anche i resti dei macchinari di produzione. Da eliminare anche l’edificio degli impianti ausiliari. Da trattare, per essere poi spedite in Slovacchia, 800 tonnellate di resine esauste e 60 tonnellate di fanghi radioattivi: 5.900 fusti.

pensare che a inizio anni Ottanta l’Enel pensava di triplicare l’investimento, aprendo un impianto a Sermide, nel Mantovano, e nel Pavese. Sempre lungo il Po. Ora a quaranta chilometri dal Pavese, a Trino Vercellese, c’è un’altra centrale in smantellamento. Qui, nell’area del vecchio impianto, sta sorgendo un parco fotovoltaico. E il Comune si candida a ospitare il grande deposito nazionale. Nel frattempo, in Lombardia i siti dove si ospitano resti dell’epoca sperimentale e produttiva del nucleare italiano, vengono lentamente ripuliti, con grandi spese.

C’è Ispra, il sito dell’Euratom, nel Varesotto. Ma anche il deposito Campoverde, a Taliedo, Milano, dove stanno 235 metri cubi di materiale radioattivo. Completano il panorama l’ex reattore del Politecnico, quello dell’Università di Pavia, e una costellazione di siti piemontesi che sono più vicini a Milano che a Torino. E intanto si gioca la partita di trovare una tomba che per qualche millennio ospiti i resti dell’avventura nucleare italiana. “La strada è molto in salita, ma continuo comunque a essere ottimista su una scelta volontaria di qualcuno dei Comuni inclusi nella mappa delle aree idonee – dice Gian Luca Artizzu, ad di Sogin –. Trovo più democratico un processo che parta dalla base, dal territorio. E infatti la popolazione di Trino è in gran parte propensa al progetto”.