C’È STATO un tempo, lontano anni luce, dei sindaci protagonisti di una piccola rivoluzione politica. Scelti dal popolo, simbolo del rinnovamento, si presentarono alla ribalta nazionale come la risorsa della nuova politica. Enzo Bianco, Leoluca Orlando, ancora freschi di investitura, Francesco Rutelli e poi Veltroni, furono i capofila. Poi i partiti, già in grave debito d’aria, creparono del tutto e quel che ne sopravvisse cercò di sopperire alla ineluttabile dipartita con il gioco “americano” delle primarie. Aperte, naturalmente. Alla società civile, of course. La rivoluzione dei sindaci finì come tutte: in salotto. Meglio: nei salottini del transatlantico di Camera e Senato. Nei Municipi arrivò la società civile, spinta dalle primarie, prodotto del cortocircuito dei partiti, incapaci di scegliere “dentro” il loro corpo. Arrivarono pm, medici, imprenditori, commercianti, quanto di più lontano dalla politica politicante. Dopo il triste epilogo di Marino, portato in trionfo dalle primarie a scapito dell’attuale ministro degli Esteri Gentiloni, oggi ci si interroga sulla stagione dei “sindaci delle primarie” e sull’opportunità di perseverare nel metodo. Val forse la pena di richiamare alla memoria la piccola storia dei “primariati”. Di Roma si è detto. Consideriamo Milano: Pisapia, noto avvocato non privo di un precedente karma parlamentare, sostenuto da Sel e dalla Federazione della Sinistra, superò nel 2010 alle primarie Stefano Boeri, candidato ufficiale del Pd. Andamento diverso nel contenuto politico, ma non nella sostanza, quanto al risultato Pd, quello di Napoli. E poi i casi Palermo e Genova. Ci sono anche primarie con Pd vittoriosi: Fassino a Torino e Merola a Bologna. E ci sono pure i giovani leoni renziani a Bari (De Caro) e a Firenze (Nardella), peraltro aiutati dall’assenza di alternative competitive. Ma quando la competizione è aperta le primarie sfornano perdenti. Emblematica la parabola di Casson a Venezia. La morale della favola forse non c’è. Di certo ci sono due cose: la grande assenza dei centri di formazione del personale politico, oggi non più rimpiazzati neppure dai sindaci. E il fatto che le primarie come metodo di selezione si sono rivelate, per il Pd che le ha importate, un fallimento. Piuttosto che l’apertura di un nuovo canale di comunicazione col corpo elettorale, una dichiarazione di impotenza della politica che, di fronte all’incapacità di effettuare scelte su uomini e programmi, si è nascosta dietro il fragile (e ipocrita) velo del giudizio della base popolare. Immaginando, spesso, di manipolarla in qualche modo. *Presidente Gruppo Misto Camera dei Deputati
CronacaL'INTERVENTO Sindaci e primarie