Milano, 15 aprile 2020 - Non esiste che un sottile filamento di Rna virale che colleghi la ragazza bresciana di 24 anni, la più giovane vittima del Covid-19 in Lombardia, alla signora cremonese, classe 1911, che a 109 anni è la persona più anziana portata via dalla pandemia. Nessuna delle due aveva patologie cardiache, oncologiche, o soffriva di diabete. La prima se n’è andata così, come altri tre ragazzi sotto i trent’anni che il contagio si è preso in questa regione. La seconda, nata quando ancora regnavano Vittorio Emanuele III e Francesco Giuseppe, passata attraverso il dramma della Spagnola del 1918, è stata uccisa dal bacillo come 14 anziani sopra i cent’anni. Sono due storie, i capi estremi di un elenco fatto di 10.902 vittime. Le persone che al 13 aprile, nelle dodici province attorno a Milano, la grande malattia che ha messo in ginocchio il mondo ha falciato per sempre. Sì, è vero: moltissime di loro erano malate. Ma 1.522 non avevano proprio nulla. Non un cancro, non l’aritmia, né un problema metabolico o di respirazione. Certo, fra loro ben 8.549 avevano disturbi circolatori. Ma a volte era solo un po’ di pressione alta.
Sì, è altrettanto vero : nella stragrande maggioranza dei casi erano anziani. Ma c’erano anche 21 ragazzi fra i 30 e i 39 anni, 111 lombardi fra i 40 e i 49, e 400 uomini e donne fra i 50 e i 59 anni. Età in cui forse qualche acciacco spunta ai meno fortunati, ma si è ancora abili al lavoro - stando alle leggi sul pensionamento - e alla vita quotidiana. Eppure, il virus venuto da Wuhan ha fatto strage in un pezzo specifico della società lombarda. Quella fascia d’età fra il 70 e gli 89 anni, che è nata a cavallo del periodo bellico, quelle donne e quegli uomini che erano giovani negli anni Cinquanta e Sessanta, protagonisti della ricostruzione, del boom economico, passati attraverso gli anni del terrorismo, delle crisi petrolifere e dei ciclici disastri economici della Repubblica. In pensione da pochi anni, ancora attivi, spesso sostegno irrinunciabile a figli e nipoti con lavori e vite precarie.
Nel decennio dei settant’anni sono 3.690 i lombardi uccisi dal virus. Quelli che il contagio ha stroncato fra gli 80 e gli 89 anni, addirittura 4.286. La grande parte è costituita da uomini. In media sono il doppio e il triplo delle donne rimaste vittime della malattia. Nelle corsie degli ospedali, nelle case di riposo, fra coloro che nella sfortuna hanno avuto il bene di un tampone che li abbia iscritti al novero dei positivi, se n’è andato un pezzo di storia e sociologia lombarda. La falcidie è per oltre un quarto del totale nella Bergamasca, duemila uomini e quasi ottocento donne. Duecentosessantasei non avevano neppure un po’ di diabete. Sanissimi. Gli altri, con problemi vari, alcuni complessi. Ma si arriva fino al secolo di vita, prima della variabile decisiva del Covid.
Segue Milano , che sta recuperando terreno, con i suoi 2.103 morti. Quasi 1.300 donne, dai 27 ai 106 anni di età. E 1.665 persone con disturbi cardiocircolatori. Poi, Brescia, con 2.008 vittime, Cremona con 821, Pavia, con 734. Fino al minimo di Sondrio e della Valtellina, dove si contano 114 morti, fra i 38 e i 97 anni, in media 75 anni. Cifre e statistiche che rendono soltanto in parte l’immagine di un’epidemia devastante, che in parte è sfuggita alla capacità di misurazione del sistema sanitario. Perché è praticamente certo che a questi 11mila lombardi persi per sempre, se ne debbano aggiungere almeno altri 2.400, persi nelle case di riposo dove il virus ha ucciso in silenzio. Senza neppure creare clamore.