
Dal disastro del Seveso, al panico europeo per la sorte dei barili di diossina: la storia di un mistero (Illustrazione di Arnaldo Liguori)
È ancora caldo il pomeriggio di giovedì 9 settembre 1982. Cielo azzurro, velato d’afa, 28 gradi. Marc Pélisson è un ragazzo bruno, sulla trentina. Camionista per la società francese Trajora. Il suo Berliet manovra davanti all’Icmesa, azienda chimica dal cui camino il 10 luglio 1976 una nuvola dai riflessi neri e rosati, trasportata da un leggero vento di Sud-Est, aveva sparso diossina sulle vite di qualche migliaio di brianzoli. Quel giorno non un filo d’aria.
La fabbrica, controllata dalla svizzera Hoffman-LaRoche attraverso la sussidiaria Givaudan, è ferma. Nel reparto B, sotto il tetto curvo coperto d’amianto, dorme il mostro. Il reattore A101, dal cui ventre quel sabato eruttarono i veleni, è ancora lì. Prudenti astronauti in tuta spaziale si sono aggirati per mesi nella carcassa, estraendo fino all’ultimo granello di triclorofenolo, soda caustica, 2,3,7,8-tetraclorodibenzo-p-diossina, in sigla TCDD. Hanno adagiato tutto in 41 bidoni blu (il colore è un particolare chiave). Una mano minuziosa, con la vernice spray, li ha numerati con cifre piccole, precise, bianche. Allineati, attendono l’ultimo viaggio. La Roche ha scelto un colosso, la Mannesmann italiana, per farli sparire. L’accordo sulla destinazione, segreto, è nello studio di un notaio milanese.
Osserva le operazioni il commissario all’emergenza, l’ex senatore democristiano Luigi Noè. Pélisson aiuta i tecnici Roche a caricare. Ma quei bidoni sono marroni, lucidi. E lo è anche l’ultimo che viene lasciato, vuoto, in fabbrica. All’alba si parte in corteo. Davanti, la scorta della polizia. Dietro, il camion e una berlina scura su cui s’accomoda Noè. In frontiera a Ventimiglia si passa con il documento di transito europeo “T2“, che dichiara il contenuto: "Derivati alogenati degli idrocarburi aromatici, scarti di lavorazione industriale contaminati da TCDD e TCF". I veleni di Seveso. Valore della merce: un milione di lire. Ma è assicurata per cinque miliardi. Sul modulo la provenienza: Meda. Ma non la destinazione. Noè, coi poliziotti, torna a Milano. Il tir esce dall’Italia ed entra nel mistero.
La scomparsa
A gestire il trasloco da 2,2 tonnellate con – si dice – due etti di diossina, un terzo soggetto. Mannesmann sceglie un’azienda francese, la Spelidec. Un solo socio, ex parà, modi signorili e decisi, folti baffi brizzolati e occhi piccoli e mobili. Si chiama Bernard Paringaux. A dispetto della struttura esile della ditta, ha ottimi rapporti e l’esclusiva con l’equivalente francese dell’Enel per gestire l’olio dei trasformatori, pieno di Pcb cancerogeno. Bernard è un mediatore. Ha un deposito in affitto a Saint-Quentin, a due passi dal Belgio, da cui transitano rifiuti da mezza Europa. I fusti sostano, ripartono e non tornano. Efficiente e discreto, dote essenziale, Paringaux incassa un miliardo di lire.
A confermarlo, sei mesi dopo, è il ministro della Protezione civile, Loris Fortuna, intervistato dal Giorno . Nel cortile dell’Icmesa, alle 18 del 9 settembre ’82 c’è anche Bernard. Parla, si accorda. Da Marsiglia i barili arrivano nel deposito Spelidec. E poi scompaiono. Un gioco di prestigio che fa tutti felici: Milano, Zurigo e Roma. Il 13 dicembre, una dichiarazione notarile assicura i manager che tutto è finito.
Panico in Europa
Troppo grossi per finire sotto un tappeto, i bidoni preoccupano. I primi a sospettare sono gli svizzeri, che sanno cosa c’è nel vaso di pandora di Seveso. I corrispondenti dei giornali ascoltano voci lombarde e già a novembre scrivono: "La diossina è a Berna". "No, in Argovia". Roche smentisce, ma in Francia leggono. La rivista “Science et Vie“ rilancia la storia. Il 9 marzo ’83, mentre Mannesmann scrive a Zurigo che "i residui sono stati loculati in un impianto estero controllato e autorizzato", scoppia la bomba.
Da sei mesi – dicono ora le tivù – dei fusti di Meda si è persa traccia. Il sospetto si fa panico quando le autorità di Marsiglia aprono un’inchiesta. Paringaux, convocato, si rifiuta di dire dove sia il carico capace di avvelenare un’intera provincia. L’onda d’urto sconvolge equilibri e ambiguità delle cancellerie. Discariche francesi, remote cave d’argilla della Germania Est e della Repubblica federale, Paesi socialisti o Nato, ognuno sospetta, protesta e polemizza. Paringaux è in carcere, zitto. Fedele al contratto e al guadagno.
Alla fine, si conterà una decina di località in cui i rifiuti possono essere. E dove puntualmente non saranno trovati. "Jeux sans frontières", titola il 27 aprile 1983, in una sintesi d’inatteso sarcasmo il settimanale svizzero “Construire”. Riferimento a “Giochi senza frontiere”, spettacolo tv in eurovisione, con squadre che si sfidano in prove da sagra, popolarissimo in quegli anni. Di serio c’è però il dubbio sulla fine delle scorie.
Le X sulla mappa
Si ventila che il baffuto faccendiere le abbia spedite ad Anversa, su una nave, la Matthias II, per farle bruciare nell’inceneritore di bordo. Proprio nel 1983, la chimichiera perde la licenza quando le autorità tedesche misurano 40 grammi di diossina in media nei fumi di ciascun “viaggio“. Poi c’è Roumazières, piccola terra dei fuochi francese. Qui, sotto leggeri strati di sabbia giallastra, si accumulano file immense di fusti arrugginiti. Senza sicurezza. A chiedere spiegazioni al governo d’Oltralpe è un giovane senatore, oggi molto noto: Jean-Luc Mélenchon.
In Germania, a Münchenhagen, dove le falde delle colline della Bassa Sassonia sono piene di rifiuti tossici senza pedigree, si allarmano. La tivù avanza l’ipotesi che i fusti di Seveso siano lì. Proteste, inchieste e poi nulla. Stesso copione a Hoheneggelsen, una manciata di chilometri più in là. Sotto il cartello “Sondermülldeponie”, discarica di rifiuti speciali, si fruga con poca voglia, anche per il rischio di riportare alla luce scorie autoctone.
L’ipotesi sovietica
Fra le puntate dell’estate dei veleni, seguite come quelle di Dallas, anche la pista che punta Oltrecortina. Ipotesi fondata anche su dichiarazioni autorevoli. Il 14 aprile 1983 Pélisson, maglione a greche rosso e camiciola, posa in foto davanti al muso del suo tir. "Ecco il porta-diossina", titola Il Giorno. Sotto, poche righe. Mentre si dà notizia della protesta di Bonn, formalizzata al nostro ambasciatore, per "aver fatto circolare i rifiuti fuori dalle direttive che impongono di dichiarare la destinazione", è il senatore Noè a far capire quale possa essere la meta (reale) dei fusti.
"Non potevamo dichiararla – dice – perché questo era l’accordo con chi gestisce la cava dove sono stati sotterrati i barili. Cava che si trova in un Paese europeo, che non vuol dire necessariamente nella Cee". In pochi intuiscono, ma sta dicendo che il giro in mare, o l’ipotesi (che negli anni prenderà quota) della distruzione nell’inceneritore Montedison di Mantova, sono da scartare. I 41 fusti, ad aprile 1983, sono già tombati in qualche discarica. Evidentemente in un Paese socialista.
Anche in questo caso, vantaggi per tutti: loro hanno bisogno di soldi, noi di disfarci del veleno. E lì, in più, non ci sono giornalisti o comitati a fare domande. Pena, uno sgradevole incontro con la Stasi o la Securitate di Nicolae Ceaușescu. La prima in particolare, viste le indiscrezioni che girano sul trasloco delle scorie verso la cava di Schoenberg, vicina al confine, nella Repubblica democratica tedesca.
Rinvenimenti miracolosi
Sono proprio i vertici della Germania comunista a tentare di smentire ricostruzioni riprese anche dal giornale svizzero “La Liberté” ancora ad aprile dell’83. "Le strutture di Schoenberg non possono accogliere scarti di questa natura", spiega il ministero degli esteri di Berlino, anche se la pista verrà ripresa nel 1993, dopo la caduta del muro, dal gruppo verde al Parlamento europeo. Oltrecortina può significare anche Romania. Come anni dopo confermerà un’importante fonte dell’ufficio di Noè. "I fusti dovevano andare lì, ma in segreto. Il clamore fece saltare tutto". Paringaux, al momento buono, cala l’asso.
E la storia per una volta non ha bisogno di ripetersi per piegarsi in farsa. André Droy, sessantenne francese, macellaio in pensione di Anguilcourt-Le-Sart, 294 anime a due passi da Saint-Quentin, nell’Aisne, una mattina si fa prendere da un dubbio. Nel vecchio mattatoio dismesso accanto alla sua bottega trova, puliti e contati, quarantuno fusti metallici. A portarceli, si saprà poi, è stato Jean Michel Quignon, giovane collaboratore di Paringaux, amico del figlio del bottegaio. Ce li avrebbe messi lui, che poi sarà indagato, dichiarandoli come barili di catrame, e trasferendoli con sette o otto viaggi a bordo di un anonimo furgone Peugeot a nolo. Come un trasloco qualunque.
Paringaux, intanto, torna libero. Si gode i soldi. Nel vecchio macello si affollano gendarmi, militari, giornalisti. La Roche ribadisce al mondo la promessa di riprendersi i bidoni e di smaltirli mentre sulla stampa mondiale esce un album fotografico completo. E nessuno mette in dubbio l’autenticità del carico, privo di segni che lo qualifichino. Non un cartello, non una scritta. Solo numeri tracciati in vernice bianca, ma con una grafia larga, frettolosa. Diversa da quella dei fusti dell’Icmesa.
Colore cambia colore
Ma un altro dettaglio pare sfuggire: quei cilindri di metallo sono di un color ocra bruno, come quelli portati da Pélisson e come quello abbandonato in fabbrica. Totalmente differenti da quelli filmati quando i tecnici-astronauti della Roche li stavano chiudendo, incontestabilmente blu. Una discrepanza mai spiegata e mai (finora) provata dalle immagini.
Nel frattempo, solerti militari e poliziotti in chepì, senza mascherine, caricano i bidoni su un camion e li stoccano nella base di Sissonne, prima di spedirli a Basilea. Qui, nel grande forno della Ciba-Geigy, capace di superare i mille gradi e incenerire anche la molecola indistruttibile del TCDD, ci vorranno due anni di test e polemiche prima della distruzione ufficiale, fra il 17 e il 21 giugno 1985. Tutto risolto? Forse. Una sola voce avanza timide riserve sull’identità dei barili.
“L’unione dei progressisti svizzeri chiede al governo cantonale di verificare se i fusti siano quelli giusti e perché siano stati ridipinti e rinumerati". Cinque righe in un riquadro pubblicato il 7 giugno dall’elvetico “Express“. Risposte? Nessuna. I progressisti a Basilea hanno poca fortuna. Di sicuro, negli anni, i dubbi sulla reale consistenza di quanto bruciato non si placano. Impossibili da provare o da smentire.
Unico dettaglio reale, il colore dei fusti. Filmati televisivi dell’epoca e foto ufficiali per la prima volta possono ora essere messi a confronto e provano la curiosa trasformazione dei bidoni. Che siano stati scambiati, non si può dire. Ma se i contenitori marroni portati da Pélisson, spariti e ritrovati in Francia e poi distrutti a Basilea sono quelli giusti, che fine hanno fatto quelli blu ripresi all’Icmesa mentre i tecnici li riempivano? Un gioco di specchi e illusioni. Un gioco di prestigio. Giochi senza frontiere.