Longarone (Belluno), 9 ottobre 2023 – Sono le 22.39. L’orologio nella sala di controllo della grande diga del Vajont segna il tempo dell’angoscia. Le cellule fotoelettriche incollate al profilo scuro del monte Toc si riflettono nell’acqua nera del serbatoio. Il bacino artificiale la sera del 9 ottobre 1963 è sotto quota 700 metri sul livello del mare, considerata dai tecnici di piena sicurezza. Le ultime radici di pino, l’estremo diaframma di roccia, sfiancato dalle prove di invaso, si spezzano in quell’istante, liberando l’apocalisse: 270 milioni di metri cubi di montagna, boschi, stagni, stalle e pascoli, piombano a velocità da codice stradale dentro il lago. Uno tsunami buio e devastante si alza dalla superficie, un muro d’acqua sorpassa di 250 metri il bordo della diga in calcestruzzo e piomba giù, anticipato da un vento umido e veloce come un tornado, sulle case della valle del Piave su cui s’affaccia il Vajont. L’impatto iniziale è sulla frazione che porta il nome del torrente e dello sbarramento, cancellata per sempre. Al suo posto oggi c’è una voragine di 45 metri, piena delle acque del fiume. L’ondata lava via come la risacca su un castello di sabbia le case e le vite di Longarone. Uccide sul colpo 1.450 delle 1.910 vittime. L’acqua le ammazza nei letti, dove già dormono 450 bambini e adolescenti, nelle osterie dove si vede in differita la partita Glasgow Rangers-Real Madrid. Le affoga nelle villette borghesi e nelle vecchie mura contadine, tirate su con la pietra fra i boschi. Oltre a Longarone, l’acqua divora gli abitati di Faè, Pirago, Rivalta e Villanova. Nella valle del Vajont spacca i muri a Casso ed Erto e nelle frazioni più vicine al lago. Pochi istanti dopo il vento di morte si placa. E rimane il silenzio. Definitivo e irreparabile.
Il giorno dopo con Giorgio Bocca
Un deserto lunare, fatto di pietre bianche e fango accoglie i soccorritori. I sopravvissuti sono nere figure di insetti che si agitano in un “formicaio distrutto”. L’alba del 10 ottobre è quella dell’esercito, dei vigili del fuoco, dei carabinieri, degli alpini e della finanza che brulicano sbigottiti, in cerca dei vivi e dei cadaveri. Dietro a loro arrancano gli inviati, partiti nel cuore della notte. Grandi nomi, penne sacre del giornalismo degli anni d’oro. Il Giorno spedisce in Veneto Giorgio Bocca. Sue alcune delle immagini più efficaci della tragedia. Prima del lutto, quelle sono le ore dello stupore. Perché davanti a quella distesa vuota, intera, a chiudere la gola stretta del Vajont, c’è ancora la diga. Il “capolavoro” della tecnica, sinistramente intatto, che ha resistito a forze venti volte più potenti di quelle che era progettato per sopportare.
L’orgoglio della scienza contro il dramma della natura è la chiave di lettura che tutti applicano. “Eccola la valle della sciagura nel crepuscolo del mattino: fango, silenzio, solitudine. E capire subito che tutto ciò è definitivo: più niente da fare e da dire. Cinque paesi, migliaia di persone: ieri c’erano, oggi sono terra, e nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere, nessuno può riparare. In tempi atomici, si potrebbe dire che questa è una sciagura “pulita”, gli uomini non ci hanno messo le mani”. Bocca crede, come tutti coloro che arrivano da fuori, alla tragica consolazione che sarà negata, di lì a poco, quando tutta la paradossale, farsesca verità del disastro del Vajont verrà a galla dalle torbide acque sconvolte dalla frana. E i primi frammenti di una verità dura, senza sconti, usciranno pochi giorni dopo, per merito di un altro inviato del Giorno, Guido Nozzoli. Bocca proseguirà nel racconto degli uomini, del loro dolore, delle vite spezzate e riannodate lungo la valle del Piave. Il collega, invece, punterà alle cause, ai perché. Poco racconto, poca voglia di vestire gli argomenti, molte domande. E si infilerà dritto nel labirinto di perizie, relazioni, spiegazioni tecniche e burocrazia, nella sfida di Icaro, quella di un gigantesco sogno idroelettrico che comincia a prendere forma quarant’anni prima.
Chi era Guido Nozzoli
Nozzoli, riminese, era nato nel 1918. Comunista e prima ancora antifascista, si fa conoscere (e arrestare) nel 1943, quando distribuisce a Bologna volantini con scritto chiaro: “Non credere, non obbedire, non combattere”. Quando è il momento, imbraccia il mitra e fa il partigiano. Crede, combatte, ma obbedisce il minimo indispensabile. Poi, si mette a scrivere. Nel peregrinare fra quotidiani, approda al “Giorno”. All’epoca il giornale di Enrico Mattei ha solo sette anni di vita, ma ha trovato spazio e credibilità in un panorama ingessato e istituzionale. Nozzoli è un duro. E quando accade il disastro, lassù lungo il Piave, ci mandano anche lui. Sulla strada del ritorno da Longarone, il primo giorno, incrocia un giovane Giampaolo Pansa, neppure trentenne. Al Vajont viene mandato dalla Stampa di Torino, ma l’anno dopo si ritroverà accanto a Nozzoli, proprio al “Giorno”.
“Stavo andando a piedi a Longarone, il 10 ottobre 1963 - racconta Pansa nel 2015 - . Non c'era più la strada. Ho incontrato l'inviato del “Giorno” che rientrava a Belluno, Guido Nozzoli. Mi disse: ‘Sei giovane, non hai visto la guerra. Vai avanti che la trovi'. Non sapevo cosa aspettarmi, ho davvero trovato la guerra”.
Perché il romagnolo la guerra l’ha fatta davvero. E i “compagni” non li ha mai lasciati. Conosce, indaga, scopre che attorno alle vicende della Sade, la ‘Società adriatica di elettricità’ che ha progettato e costruito la diga, e che ora la sta vendendo allo Stato, girano tante voci. Sa che in montagna da anni si parla del rischio di una frana, dopo la prima caduta nell’autunno del 1960. Sa che la sera del disastro, per una precauzione non si sa bene diretta a chi, i carabinieri sono stati piazzati a chiudere le strade a nord e a sud di Longarone, perché il rischio che il pendio si stacchi è altissimo, anche se nessuno avvisa gli abitanti del paese, che muoiono senza il disturbo della preoccupazione.
Nozzoli intercetta un movimento strano. La Sade, quando quell’enorme costone di roccia sul monte Toc comincia a spostarsi a valle, chiama al capezzale del grande malato i migliori medici. Chiede al dipartimento di idraulica dell’Università di Padova di studiare gli effetti della frana sulla valle e sulla diga (Longarone non rientra nel panorama dei quesiti), e sotto la supervisione del professor Augusto Ghetti, il grande luminare del settore, fa costruire un modellino del Vajont: lago, diga, montagne e frana. E sperimenta gli effetti del disastro. Fa cadere decine di volte una massa simile a quella che si stima possa piombare nel bacino e ne calcola gli effetti. Naturalmente, Ghetti, i suoi assistenti e i tecnici, che eseguono l’incarico di un’azienda privata, svolgono tutto meticolosamente. Compiendo errori, sottostimando gli effetti del disastro, scrivono la loro relazione, ne danno l’originale alla Sade e tengono, chiusa in uno schedario, la copia conforme.
Il giallo della relazione rubata
In quel dipartimento, dove le paghe sono basse, i soldi dei lavori commissionati dal gigante delle dighe sono importanti per tutti. Anche per un oscuro geometra, dipendente dell’ateneo, incaricato di disegnare i lucidi con cui si illustrano gli studi. Compresa la famosa relazione. Lorenzo Rizzato conosce bene un deputato comunista, Franco Busetto. Il tecnico, all’epoca trentaduenne, scomparso nel 2020, riceve la telefonata dell’onorevole. "Il 12 ottobre lui mi chiamò”, ha ricordato in un’intervista concessa ormai in tarda età. “Mi disse che c'era un fascicolo all'Università. Non ci pensai due volte, forzai un cassetto e ne portai via una copia. La tenni con me per tutto il fine settimana e poi feci l'errore di volerla rimettere al suo posto. Quando tornai all'università, venni arrestato”.
La notizia trapela il 15 ottobre. I giornali raccontano che è un commissario di Pubblica sicurezza ad avvicinare il geometra davanti all’Istituto di ingegneria idraulica. Ha la prontezza di fare sparire la copia, gettandola a terra, prima di essere fermato. I poliziotti frugano nella sua casa di via Fabbri, a Padova, ma non trovano nulla. Lo mettono in cella per qualche giorno, ma al processo finisce assolto per insufficienza di prove. "Persi il posto”, ricorda Rizzato, “poi lo riottenni e infine rinunciai. Tornando indietro rifarei tutto. Nessun pentimento. Certo però che mi sono sentito solo. Non tanto in carcere dove mi sono anche divertito e ho scritto un'opera teatrale, quanto fuori, nelle occasioni in cui si è parlato del Vajont .Vorrei che il passato non venisse dimenticato, che da quello si potesse partire per costruire un futuro migliore”.
Il furto della relazione dura poche ore, ma il deputato vuole che la vicenda oscura della frana, gestita dalla Sade come un fatto privato, esploda, davanti all’Italia che si interroga su 1.910 morti. Certo, è un’occasione politica irripetibile per i comunisti di attaccare l’esecutivo, un monocolore Dc. Il presidente del Consiglio dell’epoca è Giovanni Leone. Il suo è il primo di quelli che il vocabolario politico italiano, in un misto fra sarcasmo e arguzia, battezza “governo balneare”. Il presidente della Repubblica Antonio Segni, che non è favorevole all’alleanza del centrosinistra, fra democristiani e socialisti, nel difficile frangente si inventa un passaggio di tregua. Oggi sarebbe un governo tecnico, all’epoca uno estivo, senza maggioranza, con vita breve. “Di decantazione”, o (appunto) “balneare”. A giugno chiamano Giovanni Leone, il giurista napoletano presidente della Camera, che sarebbe salito al Quirinale sette anni dopo, a due anni dalla sua seconda esperienza “estiva” alla guida dell’esecutivo. Leone, che vola a Longarone come Segni, promette interventi risolutivi e chiarezza. Starà in sella fino a dicembre. Pochi anni dopo metterà a servizio delle aziende coinvolte nel processo la sua indiscutibile capacità di avvocato. Nel frattempo, i comunisti lo attaccano. Nel mirino, però, non c’è lui, ma l’accordo fra Dc e Psi, che ha partorito la nazionalizzazione dell’energia elettrica, la nascita dell’Enel. Una politica “di sinistra” senza il Pci. In questo clima, gli affondi de “l’Unità”, che da Belluno scriveva corrispondenze di fuoco contro la Sade a firma di Tina Merlin, informate, circostanziate e precise, rischiano semplicemente di essere archiviati come “cose da comunisti”.
Il ruolo del “Giorno”
Guido Nozzoli intanto si muove a caccia della verità sul Vajont. Conta i dati che non tornano. E capisce che è a Padova che si nasconde parte della storia sulla frana che non è caduta all’improvviso, senza segnali, ma è stata ignorata e sottovalutata. Intercetta, non si sa come, il movimento di documenti sul fronte comunista. Probabilmente parla con Busetto. Viene a sapere che la redazione milanese del “l’Unità”, per la quale anche lui ha lavorato fino a poco prima, sta preparando qualcosa. I contenuti della relazione rubata dal cassetto del professor Ghetti circolano. Nozzoli vuole fare prima. Recupera tutto. E offre alla vicenda una sponda differente. Perché la storia delle “prove tecniche di disastro”, finanziate dalla Sade con il modellino costruito vicino alla centrale idroelettrica di Nove, se lanciata dal quotidiano del Pci, è una polemica politica da archiviare rapidamente. Ma scritta sul “Giorno”, quotidiano di proprietà dell’Eni, ente fratello del neonato Enel, è una bomba atomica sulle ricostruzioni rassicuranti dell’alba del 10 ottobre.
Tre giorni dopo, una domenica pomeriggio, Nozzoli detta il proprio pezzo al telefono, da Belluno. La prima pagina di lunedì 14 si apre con la promessa di Segni, in visita a Longarone. “Giustizia sarà fatta”, titola il quotidiano. Sotto, un’enorme fotografia in bianco e nero, con un camion, una grande fossa con le bare di legno allineate. Le prime ventitré. Franco Nasi, il terzo inviato, racconta quella terribile giornata al campo di Fortogna, dove ancora oggi c’è il cimitero delle vittime. A sinistra, l’articolo principale è di Nozzoli. Che comincia sotto un titolo rassicurante: “Collegio di periti primo passo dell’inchiesta”. L’articolo si infila nel racconto delle prudenze giudiziarie, perché la Procura preferisce chiedere un parere tecnico prima di accusare la Sade. Al lavoro ci sono commissioni e gruppi di analisi, esperti i cui nomi ricorrono nella vicenda del Vajont. Gli stessi che hanno gestito, prestato opera e pareri sulla malattia del moribondo, sono chiamati a giudicare perché sia morto e se sia colpa di qualcuno. Nel collegio dell’Enel, ad esempio, c’è Francesco Penta, che fu consulente per la Sade sulla diga di Pontesei, sempre della Sade, dove una frana (con un solo morto) andò in scena nel 1959. Penta, componente anche della commissione di collaudo del grande bacino del Vajont, ora viene chiamato a capire perché sia accaduta la tragedia. Intrecci, incroci, responsabilità indistricabili in un perenne gioco di specchi, copione di ogni disastro in Italia.
La bomba nell’articolo di Nozzoli
Il nocciolo dell’articolo di Nozzoli però non è in prima, ma nella seconda metà del testo, a pagina 4. Un crescendo che inchioda l’azienda alle responsabilità del disastro. Cita relazioni geologiche d’anteguerra, valutazioni che parlano di strati di pietra “in posizione favorevole”. Ma – scrive – a dispetto di tutte le valutazioni quei banchi rocciosi rivelavano una preoccupante instabilità”. “Come pensare – prosegue l’articolo – che la società, dopo aver sostenuto le enormi spese per la costruzione della diga, rinunciasse all’utilizzazione del bacino? Così la Sade continuò alla chetichella a ordinare lavori sussidiari per rendere efficiente il serbatoio, smentendo categoricamente ogni voce che si levasse a denunciare l’esistenza di un pericolo”.
“Sarebbe azzardato - prosegue - insinuare che i dirigenti della società idroelettrica abbiano avuto la esatta nozione di quanto sarebbe potuto accadere; ma è certo che essi si fossero resi conto ben presto della inesattezza dei loro calcoli. Da questa consapevolezza – sempre dissimulata agli occhi di critici estranei – presero le mosse varie iniziative della società e gli studi supplementari compiuti direttamente dai suoi tecnici o affidati a gruppi di periti italiani e stranieri. Tra questi studi, uno dei più importanti resta quello affidato all’Istituto idraulico dell’Università di Padova”.
Il gioco sporco: nascondere il pericolo
E qui si scoprono i giochi: l’inviato ha visto i documenti e scrive. Non è la prosa lirica di Bocca, ma infilza i fatti sulla carta, centimetro per centimetro, lettera per lettera. “Nella relazione redatta dall’Istituto si diceva chiaramente che il turbamento delle masse rocciose e terrose determinato dalla pressione dell’acqua contro i fianchi della montagna avrebbe finito con il provocare una grossa frana. Ma anche gli illustri professori dell’ateneo patavino – dopo aver compiuto su un modello, che riproduceva fedelmente su scala ridotta le caratteristiche del bacino del Vajont, quella specie di ‘prova generale del disastro” – commisero il loro piccolo errore di previsione”. Qui arriva la svolta. Perché non solo alla Sade sanno e insabbiano il pericolo, ma sbagliano tragicamente, sottostimandolo.
“Dopo aver osservato e calcolato con rigorosa precisione – ancora Nozzoli – gli effetti dello smottamento di una massa di terreno sciolto e di detriti rocciosi, conclusero che, abbassando di una ventina di metri il livello delle acque, si poteva attendere con relativa tranquillità la caduta della frana, i cui effetti non avrebbero avuto un carattere rovinoso”. È così che fu pronunciata la sentenza di morte per quasi duemila persone. Senza coinvolgere le autorità, senza sgomberare nessuno. Unica precauzione, ridurre l’altezza del lago sotto i settecento metri sul livello del mare. Precauzione inutile. Perché quella massa non scese sciolta e libera, ma compatta, tutta insieme e in dimensioni neppure immaginate.
Gli effetti dell’articolo
Come spesso accade quando sono troppo pesanti per essere accettate, le conseguenze della verità scivolano quasi non percepite sulla superficie della vita quotidiana. L’articolo di Nozzoli produce, immediata, una querela della Sade. Che finisce senza neppure il dibattimento, con l’archiviazione chiesta direttamente dagli inquirenti. Il 16 ottobre sono i comunisti de “l’Unità” a riprendere l’articolo. In prima pagina, nel suo pezzo l’inviato Mario Passi, che si è fatto scippare lo scoop dal collega, mentre dà notizia dell’arresto del povero geometra Rizzato, spiega che “ieri mattina, in una corrispondenza del “Giorno”, si parla di uno studio compiuto dall’Istituto di idraulica dell’università di Padova su un modello che riproduce in scala ridotta una ‘eventuale frana nel bacino del Vajont’ ”. Un passaggio che rende omaggio a Nozzoli e ne riconosce i meriti. Ma nel cerimoniale di stima fra colleghi si esaurisce l’effetto politico della vicenda.
Comunisti e socialisti a proporre interrogazioni parlamentari, il governo a mediare, promettere, soccorrere e spendere per riparare al disastro di autorevoli privati dai quali aveva da poco rilevato l’intero impianto e le sue incredibili responsabilità. Anche “Il Giorno”, insieme a “l’Unità” quel giorno racconta dell’arresto di Rizzato. E riporta anche la versione dell’autorità giudiziaria. Il titolone è dedicato alle dichiarazioni alla Camera del ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo, maestro politico di Ciriaco De Mita, che parla già di “un errore gravissimo” nell’esecuzione di sopralluoghi, prove, collaudi, perizie sulla diga. Ma in un riquadro, polizia e procura trovano il modo di spiegare che il geometra che ha rubato la relazione ha fatto qualcosa di inutile e magari cercava di arricchirsi. Visto che “i documenti forse dovevano essere venduti a qualche giornale” e che negli “studi effettuati dall’Istituto di idraulica su commissione della Sade non sarebbe emersa alcuna situazione di pericolo” Si trattava insomma di semplici “ricerche geologiche e anche di ricerche sugli sfioratori”, i sistemi idraulici per far cadere l’acqua in eccesso dalla sommità delle dighe”. Approfondimenti da cui “non era uscita alcuna indicazione di rischio”. Un tentativo di affondare la verità sotto milioni di metri cubi d’acqua, di rocce e di bugie.
I processi e la conclusione
Nozzoli andrà in pensione a 55 anni nel 1973, dieci anni dopo la tragedia. All’epoca si smetteva presto. Ma a differenza di quanto promise ai colleghi (“Mi dedicherò a scrivere saggi, ho tante storie da raccontare”) non prese più in mano la penna. Si dedicò a costruire mobili, fino alla morte, nella sua Rimini, 27 anni dopo. Proprio in quei mesi, nel 2000, la vicenda dei risarcimenti si chiuse con un accordo fra Enel, proprietaria dell’impianto, Montedison, erede della Sade, e Stato Italiano, per dividersi le spese un terzo ciascuno. Ma la ferita sul territorio e nell’anima della gente di quelle valli brucia ancora.
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