
Papa Francesco e don Antonio Mazzi, fondatore di Exodus, 95 anni
Milano – “Caro don Antonio, non aspettatevi il cambiamento, anche se qualche gesto lo farò. Io sono qui per preparare il cambiamento”. Don Antonio Mazzi, 95 anni, fondatore di Exodus, ricorda le parole che gli rivolse Papa Francesco. “Era stato eletto da quattro, cinque anni. Dopo la messa nella cappella di Santa Marta gli chiesi: ‘E adesso che succede?’. Lui mi rispose così. E, in effetti, di gesti ne ha fatti e qualcosa è stato lasciato a metà. Vedremo se il Papa che arriverà avrà il coraggio di cogliere questa eredità».
Don Mazzi, il suo primo ricordo di Papa Francesco?
“L’ho incontrato tre volte. La prima in piazza San Pietro, all’inizio del suo pontificato, con tanti giovani. Un incontro più di curiosità. Ma è stato il secondo a farmi capire che qualcosa stava cambiando: mi aveva invitato alla messa che ogni mattina celebrava a Santa Marta”.
Che cosa la colpì?
“Ho visto il Papa in sacrestia, che si vestiva da solo, che usciva come un prete qualunque, col calice in mano, che sistemava le ampolle. Così diverso dal Papa lassù sul balcone, ‘in aria’, o sull’altare di San Pietro. Sembrava il mio parroco, parlava con semplicità. E siamo stati ingenui a definirlo un Papa non teologico, era un gesuita: ogni parola, anche la più semplice, colpiva. Ha salutato tutti ed è lì che mi disse che ‘preparava il cambiamento’”.

Parole profetiche?
“Sì. Anche se ho sempre pensato che, prima o poi, avrei sentito una notizia al Tg: ‘Il Papa se ne è andato a vivere fuori dal Vaticano’, per il suo modo di amare i poveri e di essere povero. Ha scelto di vivere in un “angolo“ del Vaticano, ma prima o poi mi aspettavo ci sarebbe riuscito per davvero. E speravo portasse a termine alcuni sogni che aveva iniziato, come l’ordinazione sacerdotale delle donne. È riuscito però a cambiare la visione del Vaticano in modo radicale, a mostrare che non esiste la categoria degli uomini e delle donne, come quella dei poveri. I poveri sono prima di tutto persone. Ognuno è figlio di Dio e un numero unico”.
Quali temi sono rimasti in sospeso?
“Il tema delle donne, il tema del divorzio, il tema dell’aborto: sono stati messi sul tavolo ma non ancora del tutto chiariti. È arrivato a fare cose ‘fino a...’. Non sarebbe giusto fargli dire e fare cose che non ha fatto, vedremo se il Papa che arriverà avrà il coraggio di continuare sul ‘metodo Francesco’, comunque darà vita a un pontificato diverso. Il Papa di domani non sarà un ‘Papa di ieri’».
Come andò il terzo incontro?
“Mi ha ricevuto nel suo studio un paio di anni fa. Anche lì mi ha colpito per il modo di accogliere tutti, grandi e umili, con la stessa semplicità: due sedie, una davanti all’altra. Gli chiesi perché non avesse scritto ancora una enciclica sugli adolescenti. Mi ha fatto una faccia e mi ha travolto con le sue parole: quando parlava di giovani era una gioia ascoltarlo”.
Praticamente le ha consegnato un’enciclica vivente, in diretta.
“Sì, me l’ha fissata addosso, peccato non averla scritta. Ricordo anche che prima di uscire mi disse, con quel suo tono scherzoso: ‘Guarda che ti leggo’”.
Lascia questa terra con il Giubileo degli adolescenti in corso. Che cosa ha rappresentato per i giovani Papa Francesco?
“Secondo me i giovani sono quelli che lo hanno capito di più e, allo stesso tempo, non c’è stato altro Papa che ha capito i giovani come lui. D’altronde, a differenza degli altri pontefici, lui ha fatto scuola, ha conosciuto i giovani nelle aule scolastiche”.
E ha voluto con forza la canonizzazione di Carlo Acutis. Un altro segno?
“Non lo saprei dire, sicuramente sarebbe stata un’occasione per collocare i giovani nella storia della chiesa”.
Che cos’ha voluto dirci con i suoi ultimi gesti?
“Ha attraversato la piazza, più che il tempio, incontrando l’uomo della strada. Ha salutato i carcerati ed è uscito con un poncho, come a volere abbandonare gli indumenti. Ha ricordato i grandi amori che hanno caratterizzato il suo pontificato”.