Codogno (Lodi) - Sono le 20 del 20 febbraio 2020, è il momento esatto in cui all’ospedale di Codogno arriva l’esito del tampone ed è positivo. È l’inizio di tutto, di una situazione impensabile fino a quel momento per una città come Codogno, nella Bassa lodigiana, lontano dai riflettori e abituata all’estrema tranquillità. Un’ora dopo, alle 21, è già convocato in ospedale a Lodi il primo Comitato di crisi aziendale. Ma nessuno sa bene cosa fare. Nel frattempo in poche ore il comitato di crisi regionale decide di evacuare il Pronto soccorso di Codogno e isolare l’ospedale. Areu mette a disposizione dieci mezzi sanitari e invia a Codogno il coordinatore locale per le Maxiemergenze. Intanto al Pronto soccorso di Lodi, gestito dal primario dell’Emergenza-urgenza Stefano Paglia, richiamato in servizio, i pazienti iniziano ad arrivare numerosi. Tutti con problemi respiratori, la maggior parte con una polmonite interstiziale bilaterale.
La paura è tanta, i dispositivi di protezione per medici, infermieri e Oss ancora troppo pochi. Bisogna anche inventare un nuovo approccio, un modo diverso di prendere in carico il paziente. Nasce in poche ore il “modello Lodi“, lo stesso che farà scuola in giro per il mondo. Questo è solo l’inizio di tutto, poi ci saranno la prima zona rossa creata intorno a Codogno e altri dieci Comuni il 23 febbraio 2020 con l’arrivo dei militari a presidiare i confini, le strade deserte con solo le ambulanze. E la gente chiusa in casa con la paura e quel senso d’incertezza davanti a quel virus sconosciuto e terribile.