REDAZIONE CRONACA

Chi e perché ferì Garibaldi? Storia politica di un colpevole

Chi sparò a Garibaldi sull’Aspromonte? Non lo sa nessuno (o quasi). Eppure ciò che avvenne quel 29 agosto 1862 sulla Piana dei Pastorelli, non ha lasciato indifferenti per oltre centocinquant’anni schiere di scolari e di studiosi di GENNARO MALGIERI

Il libro de Il Giorno di Gennaro Malgieri

Milano, 29 gennaio 2016 - Chi sparò a Garibaldi sull’Aspromonte? Non lo sa nessuno (o quasi). Eppure ciò che avvenne quel 29 agosto 1862 sulla Piana dei Pastorelli, non ha lasciato indifferenti per oltre centocinquant’anni schiere di scolari e di studiosi. Quantomeno la curiosità avrebbe dovuto spingere i cultori del Risorgimento a chiedersi chi mai ebbe l’improntitudine o il coraggio di ferire ad una gamba l’Eroe dei Due Mondi. Per di più in una “battaglia” da operetta che pur vide cadere dodici combattenti, tra bersaglieri e camicie rosse. Invece tutti se ne sono bellamente infischiati. Per poco Garibaldi non perse una gamba, ma l’epica nazionale ci guadagnò una leggenda ed una canzoncina che ancora oggi qualcuno canticchia. Di colui che si rese responsabile del clamoroso gesto, eseguendo gli ordini del generale Cialdini e del colonnello Pallavicini, però non si è mai saputo nulla. Si chiamava Luigi Ferrari, ligure di Castelnuovo Magra, vicino a La Spezia, luogotenente dei bersaglieri, per nulla sprovveduto, che mirò proprio all’arto inferiore di Garibaldi, per non fargli troppo male evidentemente.

La “rivelazione” la dobbiamo ad Arrigo Petacco e Marco Ferrari,lontani discendenti dello “sparatore”. In un libro godibilissimo, ricco di annotazioni di costume oltre che della ricostruzione inedita di una pagina “minore”, ma non per questo meno importante, del Risorgimento, ci offrono uno spaccato d’epoca assai suggestivo, ben oltre la vicenda che narrano. Gli autori, lontani discendenti del misconosciuto Ferrari, tirano fuori dall’oblio il “gesto” (non sappiamo quanto meditato) che bloccò l’avventura garibaldina di conquistare Roma. Era proprio questo che a Torino si voleva evitare. Attaccare il Papa significava rompere l’alleanza con Napoleone III che lo proteggeva, indebolire il Regno in formazione in quel Lombardo-Veneto ancora sotto le mire austriache, inficiare la riuscita di un grande progetto. Garibaldi non capiva molto di politica. Credeva di poter risolvere tutto con le armi. E non si accorse che la sua vulnerabilità era tale che perfino un giovane tenentino poteva fermarlo e bruciare i suoi sogni di gloria. Un velleitario, insomma, che dopo l’attentato chiese ai bersaglieri di essere condotto su una nave britannica al largo di Scilla per mettersi definitivamente in salvo, pur sapendo che nessuno gli avrebbe torto un capello. Naturalmente non venne accontentato. Mentre il Ferrari, con un piede amputato e ammaccato nell’orgoglio, se ne ritornò al suo borgo, ottenendo pubblici encomi e severi privati rimproveri (dei quali lui stesso si fece carico) che lo segnarono per tutta la vita, per quanto venne chiamato due volte a ricoprire l’ufficio di sindaco. Una vicenda bizzarra, ma anche esemplificativa delle contraddizioni di quella che è stata fatta passare per epopea e non lo è stata. Gli autori “umanizzano” il tutto, raccontando la storia minima ed esemplare di un italiano di nuovo conio che grazie a loro, forse, dopo tanto tempo si è guadagnato un posto nella storia.

ARRIGO PETACCO e MARCO FERRARI, Ho sparato a Garibaldi, Mondadori