Per trent’anni, percorrendo le strade di tutta Europa, quella creatura mitologica l’ha scrutato ogni giorno. L’ha inseguito sotto il sole d’estate, lungo le corsie dall’odore di bitume degli esodi d’agosto; l’ha fissato d’inverno, dall’alto di un’insegna, su un’anonima statale lombarda, fra le brume gelide della Bassa e sulle tortuose provinciali lungo i laghi del suo Varesotto. La fiamma rossa del cane a sei zampe, illuminata al neon in migliaia di stazioni di servizio, non ha mai smesso di ricordare allo scultore Luigi Broggini un successo ostinatamente mai rivendicato.
Eppure è lui il papà di quel mostro familiare, “fedele amico dell’uomo a quattro ruote” nello slogan di un allora sconosciuto Ettore Scola, una belva che dal suo riquadro giallo ha vegliato sui rifornimenti di milioni di automobilisti. Per pudore, per non sporcare con un’operazione commerciale la fama di grande autore, semplicemente l’artista non ci ha messo la firma, passata a un prestanome, rinunciando per tutta la vita a rivendicarne l’idea originale. Fino a quando, nel 1983, dopo la sua morte è il figlio a svelare un segreto noto solo ai grandi nomi del design e dell’arte italiana.
La storia di Broggini comincia nel 1908, quando nasce a Varese da genitori milanesi l’allievo di Adolfo Wildt, studente di Brera, collega di Lucio Fontana e Fausto Melotti. Innamorato di Parigi e presto deluso, fissa per sempre l’indirizzo del suo atelier in corso Garibaldi a Milano.
La vicenda del logo dell’Agip, invece, inizia nel 1952. È in quell’anno, quasi di nascosto dal governo di Alcide De Gasperi, che Enrico Mattei muove i primi decisivi passi verso il visionario sogno di trasformare un’azienda pubblica in liquidazione in un colosso petrolifero “all’americana” e impone che ogni prodotto di quello che un anno dopo sarebbe diventato l’Eni, l’Ente nazionale degli idrocarburi, avrebbe avuto un’immagine pubblicitaria forte, unica, riconoscibile. Un solo colore, un solo logo. Oggi la chiamano “corporate identity”, identità aziendale.
In quegli anni, con metà del Paese ancora da ricostruire e le città popolate da rare Topolino d’anteguerra, la motorizzazione di massa delle 500 e delle 600 era ancora una remota promessa. E le teorie attuali del marketing erano negli scaffali delle librerie delle multinazionali e delle università americane. Nella Milano dell’industria e del commercio si era ancora alla preistoria della réclame dei cartelloni stradali. Niente tivù, solo giornali, poca radio e qualche pionieristica realizzazione filmata, che ancora sapeva di cinegiornale Luce. Ma Mattei da subito fa le cose in grande.
Un concorso viene bandito sulla più prestigiosa rivista dedicata all’architettura: “Domus”. Qui si chiede a tutti gli italiani, non solo ai titolati, di proporre un marchio per “Supercortemaggiore”, quella che il claim definisce «la potente benzina italiana», nata dal (piccolo) giacimento del Piacentino con cui Mattei giustifica l’esistenza di un’industria estrattiva nazionale e la creazione dell’Eni. Servono disegni anche per Agipgas e per tutta una serie di nomi da reclamizzare su paline e colonnine. Ai vincitori ben 10 milioni di lire: una montagna di soldi per quell’8 settembre 1952, quando si riunisce la commissione di valutazione per scegliere fra i 4mila bozzetti spediti alla rivista.
Al tavolo, a parte Gio Ponti che è in Sud America e non riesce a presiedere la seduta, ci sono i grandi del design e della cultura nazionale: Mino Maccari, pittore e scrittore, Silvio Negro, giornalista: entrambi con un passato fascista, che evidentemente non infastidisce il partigiano Mattei. Insieme a loro anche Mario Sironi, grande pittore e grafico, e Antonio Baldini, anch’egli scrittore, giornalista ed esperto d’arte.
A uscirne vincitori una serie di animali misteriosi, degni di un bestiario medievale. Il cane a sei zampe era in compagnia del gattone verde, a tre soli arti, dalla cui coda usciva un’altra fiamma, quella del gas che Agip già cominciava a vendere a famiglie e imprese. E poi nero, accompagnato da una lingua di fuoco, il sinuoso serpente dei lubrificanti per motori Energol, che farà compagnia ai primi due. Tutti immersi in quel fondale giallo, che è il colore unificante dell’intera attività industriale e commerciale dell’Eni. Broggini, quindi, vince. Ma a presentare il lavoro, limitandosi però a raffinarne l’idea, è Giuseppe Guzzi, un grafico milanese al quale, fino all’inizio degli anni Ottanta, sarà ufficialmente attribuita la creazione del logo.
E qui la storia sfuma in leggenda. Immaginifica, e non confermata, la storia che vorrebbe il cane a sei zampe nascere con il volto e la fiamma rivolti a sinistra e poi essere modificato per apparire meno aggressivo. E, ancor più oscuro, il collegamento con il mitologico drago Tarantasio, mostro che si sarebbe nascosto in un tempo indefinito nelle acque limacciose e basse del lago Gerundo, un bacino che copriva – davvero – in tempi antichi i campi fra Lodigiano, Cremasco, Bergamasca e Milanese, lungo l’attuale corso dell’Adda. Sotto quelle terre verdi, di cascine e filari di pioppi, dormiva il gas del grande serbatoio di Caviaga, da cui fra i primi il sibilo del metano uscì per alimentare fabbriche e macchine più mostruose della bestia della palude. Ma forse è solo suggestione del marketing.
Nel lavoro di Mattei c’era poco di arcaico e molto di visionario. Se l’Agip del Ventennio era stata laboratorio estetico dell’architettura razionalista, con i garage dalle grandi tettoie volanti in cemento armato ad ammiccare al futurismo, l’Azienda generale italiana petroli non aveva un’anima comunicativa, né un’identità da moderna multinazionale. Del suo Eni, invece, Mattei voleva fare una ottava sorella, una più piccola e corsara parente della Exxon, della Bp o della Shell. Tutte con un proprio colore, un proprio simbolo riconoscibile, una bandiera. Dalle torri delle piattaforme petrolifere in mare aperto ai posacenere dei ristoranti e dei motel Agip, parallelepipedi di cristallo e calcestruzzo alti da fare ombra agli svincoli delle nuove autostrade, il cane a sei zampe sarà ovunque. Anche sulla fusoliera del bireattore schiantato a Bascapè.
Per fare, però, di quel bozzetto quel che è oggi serviranno ancora anni. Venti dalla prima intuizione di Mattei. Nel 1972 fu Bob Noorda, il papà del logo e della segnaletica della metropolitana di Milano, a rivedere il drago sputa fuoco. Un altro pezzo dell’identità di quello che ancora era un ente statale uscirà dalla sua mano. Il carattere nero, con il filetto bianco in mezzo, che per decenni ha composto i nomi di ogni prodotto e di ciascuna delle società del gruppo è ispirazione fulminea: imita la striscia bianca che corre in mezzo al nero dell’asfalto. Un omaggio alla strada e la sua promessa di cambiamento e libertà.