Milano - Un destino comune unisce la Germania e la Lombardia: la volontà di ripresa di due delle aree strategiche della manifattura europea si scontra, dopo la crisi Covid, con un’altra minaccia: la guerra dei microprocessori, la battaglia fra Cina e Occidente nell’acquisto delle aziende e della produzione di quei piccoli oggettini in silicio, pieni di circuiti minuscoli, che sono il vero cuore della produzione industriale. Non c’è automobile, persino lavatrice, che non ne sia dotato. Vengono per la stragrande maggioranza prodotti in Oriente, ma vengono utilizzati qui. In particolare in Lombardia. E se non ci sono, il battito d’ali della farfalla cinese si trasforma in un uragano di ritardi nella produzione e cassa integrazione per i lavoratori. Tutto comincia alla fine della prima ondata del Covid.
Crescono le richieste di apparecchiature elettroniche: tablet, computer, telefoni 5G sono il pane quotidiano, anche in Italia, per smart-working e didattica a distanza. I prezzi salgono, ma soprattutto i grandi produttori di elettronica fanno incetta di componenti. I pregiati “wafer“ di silicio, si calcola, siano per il 70% del mercato nelle mani di due aziende, la coreana Samsung e la taiwanese Tsmc. I microchip prendono la via della Cina, in gran parte, oppure restano in Corea ad alimentare l’industria locale dell’elettronica, che poi esporta da noi. E le forniture, sempre più care, cominciano a scarseggiare in Europa. Esaurite le scorte, cominciano i primi effetti negativi. A migliaia di chilometri dalla Corea, negli stabilimenti di Brugherio della Candy, da dove escono lavatrici “intelligenti“, si accorgono che non basta appartenere al gruppo cinese Haier per ottenere i sospirati chip. E 500 operai si sono fermati, a maggio, per un mese intero. Più lunga e complessa la filiera dell’automotive. Zero fabbiche di auto, in Lombardia, ma ben 590 aziende, di cui 85 con fatturato sopra i 50 milioni, che producono qualunque cosa serva a un costruttore di veicoli.
E su ogni vettura circa il 50% del valore è dato dall’elettronica. Qui la crisi da microchip colpisce duro. Il rallentamento di produzione fra febbraio e marzo ha portato a molti fermi produttivi. Cassa integrazione anche in colossi come Bosch, con la consociata Edim di Villasanta, ancora in Brianza. Problemi anche nelle fabbriche di bulloni e viti, altra specialità del territorio. Ma il tema si riflette già sulla filiera: un mese dopo lo stop produttivo riguarda già gli stabilimenti Fca del sud, riforniti dalle aziende lombarde. Intanto i microprocessori, già cari, diventano oro. Schizzano in borsa le azioni di Stm, colosso pubblico-privato del microprocessore con capitale italofrancese, sede ad Agrate Brianza. «Di fronte alla pressante domanda di chip, i grandi gruppi si stanno organizzando ma la produzione nelle tecnologie più complesse può richiedere anche sei mesi", dice Marco Cassis, responsabile marketing e vendite. Anche la scelta del governo di usare il cosiddetto “golden power“ per fermare la vendita ai cinesi del 70% della produttrice di chip Lpe di Baranzate è una risposta politica, ma non risolve il problema. "Questa crisi rischia di essere addirittura peggio di quella causata dal virus", dice Pietro Occhiuto della Fiom Cgil.