Milano – Non c’è solo l’ultimo atto. Quando, alla fine, un padre pugnala, spara, ammazza una madre. Ci sono le botte, le urla, le minacce, i ricatti, gli atti persecutori che precedono i femminicidi. Una violenza che resta incollata su chi resta, sui figli della donna uccisa, dei quali, una volta calato il sipario, spesso ci si dimentica. Continuare a occuparsi di loro anche quando la loro mamma non c’è più. Non arrendersi a una promessa impossibile. Nasce con questa motivazione il progetto “Orphan of Femicide Invisible Victim”, promosso dalla cooperativa Iside attraverso la partecipazione al bando “A braccia aperte” dell’Impresa sociale Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa. L’obiettivo è quello di accompagnare gli orfani di femminicidio lungo un percorso legale, psicologico e educativo.
I nomi invisibili
Un progetto che deve però scontrarsi con più di un ostacolo. Innanzitutto, in Italia individuare gli orfani di femminicidio non è così immediato. L’Eures segnala 159 minori rimasti soli a seguito di 97 delitti di genere compiuti nelle regioni interessate dall’iniziativa, ovvero Emilia-Romagna, Friuli-Venezia Giulia, Lombardia, Trentino Alto Adige e Veneto. Francesca Garisto, avvocata e vicepresidente della Casa di Accoglienza della donne maltrattate di Milano (Cadmi), partner per la Lombardia, ha seguito la ricerca presso i tribunali minorili e ordinari, dove “non esiste un criterio di classificazione e raccolta”. Da qui l’enorme lavoro a ritroso: alla Corte d’Assise dall’elenco dei processi per omicidio, nei quali non c’è distinzione di genere della vittima, vanno distinti i femminicidi con minori. Alcuni processi, spiega ancora l’avvocata, vengono inoltre archiviati perché l’autore del reato dopo aver ucciso si è tolto la vita. “Abbiamo consultato valanghe di fascicoli per individuare casi che potrebbero essere di nostro interesse, ma gli strumenti sono rudimentali. Ci vorrebbe proprio un’altra mentalità, andrebbe creato un database”.
Provvedimenti fantasma
Ma tra le voragini legislative non c’è solo la mancanza di raccolta dati ma la scarsa conoscenza di una norma nata proprio a partire dalle denunce dell’invisibilità degli orfani e alla mancanza di tutela istituzionale nei loro confronti. Si tratta della legge numero 4 del 2018, che offre strumenti come il gratuito patrocinio, il risarcimento del danno e il sequestro conservativo dei beni dell’indagato, misconosciuta spesso anche dagli stessi giuristi: “Faremo un sondaggio presso l’ordine degli avvocati di Milano per capire chi la conosce. Sono certa che, se i miei colleghi non barano, dovranno rispondere che non la conoscono perché non viene applicata quasi mai, anche se offre opportunità importante per facilitare l’accesso alla giustizia di questi orfani”.
La mancanza di verità
La parola giustizia nelle parole di Francesca, si intuisce, ha un volto. L’avvocata è stata infatti genitrice di una minore orfana di femminicidio. Maria (nome di fantasia), aveva 10 anni quando la mamma è stata uccisa dal padre. Prima di entrare a far parte della famiglia di Francesca, nessuno le aveva raccontato cosa fosse realmente accaduto: “C’è una quantità di dolore così grande e un bisogno smisurato di amore, ma anche un’instancabile sete di verità”. Ricorda così Francesca i sentimenti che attraversavano la ragazza: “Il mio non è stato un compito facile e la rete istituzionale è stata pressoché inesistente. È proprio questo che vogliamo cambiare”. Cristina Carelli, coordinatrice generale di Cadmi, spiega che bisogna ricordarsi “che la violenza impatta non solo sulla donna ma anche su tutto il suo contesto e che questi bambini non diventano invisibili soltanto quando sono orfani. Lo sono stati durante la storia di dolore e soffrenza. Spesso si tende anche a colpevolizzare la loro madre, quando sappiamo bene che non è lei la responsabile di quel vissuto, ma chi ha agito la violenza”. Un percorso ancora da costruire per il quale serve una visione più ampia delle conseguenze dei femmicidi e della violenza che queste morti trascinano con loro. Intanto, conclude l’avvocata, “a questi bambini si deve almeno la verità”.