ALDO MORO
Cronaca

L’eterno nodo politica-giustizia

Lo scandalo delle tangenti Lockheed e l’inchiesta in aula contro i deputati finisce per mettere sotto accusa la Dc. "Il dilemma fra privilegio e diritto"

Pagina storica de Il Giorno con l'articolo di Aldo Moro

Milano, 22 aprile 2018 - Alcuni sofferti rilievi del presidente della Commissione inquirente, senatore Martinazzoli, considerazioni di operatori ed osservatori politici, commenti di stampa hanno riproposto il tema del modo di perseguire i reati cosiddetti ministeriali. C’è chi ha trovato sospetta questa attenzione, proprio nel momento nel quale la Commissione giunge ad una conclusione accusatoria. La polemica però dura da anni e si riaccende tutte le volte che i risultati di un’inchiesta vengono dibattuti dall’opinione pubblica e, con i risultati, il modo di agire o addirittura il modo di essere della Commissione competente. C’è un comune denominatore nell’insoddisfazione di volta in volta manifestata: che vengano prese decisioni non giuridiche, ma politiche: che non si faccia rigorosa giustizia, ma si provveda a soddisfare interessi di parte.

Vè perciò chi si duole che siano coperte responsabilità le quali non sfuggirebbero ad un giudice ordinario e chi lamenta invece che siano formulate accuse, delle quali, per la loro labilità ed inconsistenza, un organo, non prevenuto e non motivato da considerazioni politiche, almeno da quella di non apparire solidale con la propria casta, farebbe rapidamente giustizia. V’è chi osserva in particolare che, in una situazione politica caratterizzata da una solida maggioranza, vi è la tendenza a tenere conto di essa più che dei dati del processo ed a salvaguardarla con ogni possibile indulgenza, mentre, in periodi contrassegnati da disorganicità dei rapporti politici, è difficile costituire delle solidarietà ed anzi la tensione, propria di una condizione di insufficiente aggregazione, determina atteggiamenti passionalmente negativi e pregiudizialmente accusatori. E non è tanto importante, si noti, che sia in effetti così, che si riscontri, per ragioni politiche, troppa comprensione o troppa severità: che vi siano, ancora per ragioni politiche, solide maggioranze per assolvere ingiustamente o maggioranze non ponderate ed occasionali per accusare. È importante che lo si immagini vero o verosimile, che si diffonda l’impressione che prevalgano interessi politici e la giustizia ne sia inficiata e resa propriamente impossibile. È questo sospetto, ed io non oserei pensare che si tratti d’altro che di questo, il quale avvelena l’opinione pubblica e dà la sensazione che politica e diritto siano inconciliabili. Io lascio da parte dunque il quesito più radicale, com’è proposto dal senatore Martinazzoli, se cioè da tante verità parziali possa scaturire una verità sola ed autentica, se sia possibile essere ad un tempo uomo di parte ed uomo universale e cioè giudice. Giudice o anche accusatore che assume la pesante responsabilità di accusare e cioè di condannare per quanto lo riguarda. Ciò pone un delicato problema di coscienza. È nell’intimo della propria coscienza che l’uomo politico si sentirà o meno capace di giudicare, al di fuori di ogni considerazione d’interesse e di ogni logica di gruppo, secondo il proprio personale convincimento, come tale rigorosamente obbligante. Mi limito a dire, come fatto politico, che nel pubblico c’è, in larga misura, scetticismo.

E, d'altronde, come potrebbe non esservi, quando in una fase delicatissima, com’è quella nella quale si accertano i fatti e si vanno formando obiettive convinzioni, ci si abbandoni, ad esempio, a dichiarazioni perentorie, si pregiudichi frettolosamente, si colpisca drasticamente, si mostri di volere più influenzare l’opinione pubblica che cercare la verità? E come non rilevare, d’altra parte, almeno l’improprietà di certi riferimenti alla disciplina di partito? Seppur si tratti soltanto, com’è possibile, di apparenze, esse sono tali da incrinare la credibilità di organi che partecipano all’amministrazione della giustizia in modo non sempre raccolto e sereno. Da queste considerazioni io non desidero trarre ora nessuna conclusione netta ma solo esprimere un principio di dubbio e porre un tema, che dovrà essere approfondito con ben altro impegno che non sia quello possibile in questa sede ed in questo momento. Ed il dubbio è se la Costituente abbia fatto, in questa materia, una buona scelta ed adottato, pur nella specialità del caso, una disciplina coerente con i principi essenziali dell’ordinamento ed in particolare quelli dell’eguaglianza e della giustizia. Non è chi non veda, a parte le valutazioni espresse sin qui sul procedimento di accusa, come anche l’altissima dignità ed affidabilità della Corte costituzionale, peraltro politicamente integrata, non possa supplire alla carenza dei tre gradi di giurisdizione. Il che è tanto più grave per gli imputati cosiddetti laici, ai quali vengono anche a mancare alcune garanzie in ordine a provvedimenti restrittivi della libertà personale. Non si può certo pensare che la Costituente abbia affrontato questo problema a cuor leggero e non abbia sentito il peso di un’incoerenza che veniva a rompere l’armonia del sistema. Se ne è certo resa conto, ma deve avere ritenuto preminenti altre considerazioni. Considerazioni che possiamo immaginare attinenti al carattere obiettivamente politico che assumerebbero reati connessi con l’esercizio delle funzioni ministeriali, tali da richiedere un’appropriata valutazione ed una comprensione dall’interno dei meccanismi nell’ambito dei quali essi vengono compiuti. Il che ha indotto taluno a parlare di semi-immunità o semi-privilegio.

I quali sarebbero peraltro garantiti dalla stessa Costituzione in ragione dell’esigenza di un’efficace partecipazione di organi politici per la salvaguardia d’interessi rilevanti che, si assume, non potrebbero essere soddisfatti con pari efficacia dal giudice ordinario. È certo questa una visione rispettabile e d’altra parte, come per ogni statuizione costituzionale, da abbandonare solo con estrema ponderazione. E tuttavia fermenti critici sono affiorati ed è legittimo il dubbio se almeno l’istruttoria non dovrebbe essere affidata alla stessa Corte costituzionale o se, addirittura, proprio la giurisdizione ordinaria, con tutte le sue cautele, e ovviamente con il presidio dell’autorizzazione a procedere, non sia più idonea ad assicurare il raggiungimento della verità, la credibilità della giustizia, la tutela degli interessi dello Stato, il rispetto dei diritti del cittadino. Un dubbio che l’esperienza futura potrebbe così dissolvere come accentuare. Non si deve però agire con precipitazione, specie avendo presente che siamo dinanzi a un sistema costituzionale pressoché invariato da trent’anni, sufficientemente stabilizzato e, quel che più conta, ricco ancora di una notevole vitalità.