
Andrea Maggi (foto Angela Caterisano)
Milano, 17 febbraio 2021 – Il pubblico della tv ha imparato a conoscerlo come uno dei professori più amati e rispettati del reality show Rai “Il Collegio”. Andrea Maggi, 47 anni, friulano di Cordenons, sul piccolo schermo si è fatto notare anche per il look, basette lunghe da mod (o da Lemmy dei Motorhead, dice lui) che ora si è tagliato e occhi chiari strappa applausi. Oltre all’immagine, però, c’è – molto – di più. Come dimostra nel suo ultimo libro “Conta sul tuo cuore”, uscito per Giunti. Ma anche con le sue idee sul mondo della scuola. Chiare, mai banali e persino scomode, quando serve.
Professore, quando ha iniziato la sua carriera in cattedra e dove insegna?
“Ho cominciato nel 2004. Insegno Lettere alla scuola secondaria di primo grado ‘Balliana-Nievo’ di Sacile, in provincia di Pordenone”.
Qual è secondo lei la situazione attuale della scuola in Italia?
“Fra il drammatico e il complesso. A seguito della pandemia ha subìto uno stress test non da poco. Eppure ha dato prova di poter contare su grandissime risorse al suo interno, soprattutto umane. Con il primo lockdown da un momento all’altro si è trovata a trasformarsi completamente, con l’adozione della didattica digitale. Una rivoluzione che docenti e dirigenti hanno dovuto affrontare di loro iniziativa. È stato compiuto uno sforzo straordinario, garantendo il diritto all’istruzione agli studenti”.
Tutto è filato liscio, quindi?
“Non proprio. Il primo lockdown e il secondo per gli studenti delle superiori hanno messo in evidenza molte difficoltà. La più importante? La didattica a distanza non è inclusiva. Le categorie più deboli sono rimaste svantaggiate. Penso agli allievi disabili, a chi deve fare i conti con disagi dell’apprendimento e agli studenti a rischio abbandono. Questi ragazzi hanno sofferto molto a causa delle carenze della didattica in remoto”.
A proposito, qual è il suo parere su questo metodo?
“Di sicuro questa incapacità di coinvolgere le categorie di studenti più fragili. Il suo punto di forza è che ha costretto maestri e professori a sperimentare un approccio digitale. Questa vicenda ci dovrà essere utile a ripensare la didattica digitale integrata del futuro. Gli insegnanti, dopo questo esperimento in un momento d’emergenza, dovranno approfondire la materia per integrare l’offerta formativa delle scuole, partendo dalle esperienze concrete dei docenti. Spero che il lavoro sulla programmazione del curriculum digitale venga avviato dal basso, coinvolgendo anche gli studenti”.
In che modo?
“Bisogna capire come la didattica digitale integrata può arricchire gli allievi e cosa, invece, è superfluo. Mi chiedo, per esempio, se ha senso utilizzare le lavagne multimediali soprattutto per mostrare video da YouTube. Se è quella la prospettiva che ci aspetta, il tema va profondamente ripensato. Noi insegnanti non possiamo diventare maschere di un cinema aperto nelle scuole”.
Cos’altro cambierebbe della scuola italiana?
“Mi piacerebbe ci fosse un coinvolgimento effettivo delle famiglie nella progettazione del curriculum didattico. Spesso i genitori ragionano su cosa fanno i figli pensando ai vecchi programmi scolastici. Per questo la sfida della scuola post-pandemia è coinvolgere attivamente madri e padri, per renderli consapevoli e compartecipi di ciò che si fa in classe. L’educazione e la formazione dei ragazzi devono essere condivise fra scuola e famiglia”.
C’è altro?
“Mi piacerebbe che la scuola dell’obbligo non fosse considerata un kindergarten. Un luogo in cui i genitori piazzano i figli solo perché non sanno dove metterli. Deve tornare a essere un’istituzione in cui si trasmette conoscenza”.
Quali sono secondo lei il difetto e il pregio principali della sua categoria?
“Credo che coincidano. È la grande passione per il lavoro. È un pregio perché, come ha dimostrato il coronavirus, la maggior parte degli insegnanti ha risposto positivamente all’emergenza. Ma è un difetto perché spesso, sull’onda dell’entusiasmo, ci buttiamo in iniziative impegnative senza attenderci il dovuto compenso. In molti consideriamo questo mestiere una missione. E la società, istituzioni e famiglia, si approfittano di questo nostro attaccamento alla professione. Non esiste che i docenti italiani siano tuttora i peggio pagati in Europa”.
Come hanno reagito gli studenti alla pandemia?
“Studenti e studentesse sono stati colpiti duramente. Questa situazione precaria ha portato alla crescita di ansia, insicurezza e crisi di panico. La fragilità degli adolescenti è aumentata. I ragazzi, penso per esempio a quelli dell’età dei protagonisti del mio romanzo, allievi all’ultimo anno di liceo, sono presuntuosi, arroganti ed estremamente fragili. Ciò nonostante sono straordinari sognatori. Nel libro il loro professore di Lettere propone un ritiro in montagna lontano da social e media per conoscere loro stessi. Deve essere un obiettivo per noi insegnanti anche nella realtà attuale: dobbiamo aiutare i giovani a riprendere i contatti con loro stessi e il mondo. Li abbiamo lasciati prima della pandemia che manifestavano per la tutela dell’ambiente, mi piacerebbe rivederli lottare per i loro diritti”.
Lei li supporterebbe?
“Certo. Mi metterei al loro fianco e li aiuterei a imparare a sperare in un futuro migliore. Ora faticano perché, con la pandemia, si sono scoperti ancora più scoraggiati, disillusi e diffidenti nei confronti degli adulti, che non hanno garantito loro un mondo sicuro e sano. Devono tornare a sognare. E noi dobbiamo dare loro una mano”.
In questa pandemia i giovani sono stati spesso dipinti come irresponsabili e menefreghisti. Cosa ne pensa?
“Un adulto che se la prende con i giovani è un grandissimo ipocrita. Chi lo fa molto probabilmente non conosce fatica e difficoltà che un adolescente ha patito in questa pandemia. C’è stato sicuramente qualche sconsiderato e scriteriato fra i giovani, come c’è stato fra gli adulti, ma si è trattato di una minoranza. Posso testimoniarlo con la mia esperienza diretta”.
Ci dica.
“Nella mia scuola da settembre non si è mai dovuto chiudere. Abbiamo imposto poche regole, ma chiare. Il distanziamento e l’utilizzo generalizzato della mascherina. I ragazzi l’hanno capito subito. Posso dire che il mio istituto ha potuto proseguire con la didattica in presenza grazie alla collaborazione degli studenti”.
Qual è la differenza fra insegnare in una scuola vera e in quella del reality “Il Collegio”?
“Praticamente nessuna. Quello che ho fatto in tv è quello che sono abituato a fare nella vita reale. Certo, al ‘Collegio’ ho a che fare con studenti provenienti da tutta Italia e in una sola classe posso osservare uno spaccato di tutta la realtà giovanile del Paese, cosa che può essere molto complessa da affrontare come insegnante. Anche a Sacile fra i miei allievi ci sono studenti che vengono da varie parti d’Italia, immigrati di prima o seconda generazione, ma vivono in una realtà più circoscritta. Poi, ovviamente, ci sono esperienze come abiti e trucco, specifiche del mezzo televisivo”.
Quale delle esperienze maturate in cattedra le è stata più utile per affrontare il ruolo in tv?
“La ricerca continua del dialogo con gli studenti. Questa attitudine mi ha aiutato molto. Al ‘Collegio’ sono il professore con il pugno di ferro che, però, spesso mi levo per infilare il guanto di velluto così da confrontarmi con i ragazzi e cercare di capire le loro ragioni. È quello che faccio anche a scuola. Anche se nelle aule di Sacile faccio qualche battuta in più”.
Com’è nata l’idea del libro?
“Durante il lockdown, osservando come cambiavano i volti dei miei studenti attraverso lo schermo. Ho ragionato sulla crescente fragilità dei giovani con la pandemia. Ho immaginato una sorta di ‘Decameron 2.0’, in cui i ragazzi potessero trovarsi in un ambiente circoscritto e sperimentare la vita reale in comunità. I miei protagonisti vivono la socializzazione, i conflitti, l’amore, i litigi. Tutto quello che serve per crescere”.
Qual è stata la soddisfazione più grande nel suo mestiere?
“Sicuramente imbattermi in ex studenti che mi raccontano dei loro successi, dei loro progressi e delle loro esperienze di vita. Fare l’insegnante è un po’ come fare il contadino. I frutti si vedono dopo tempo. Le soddisfazioni più grandi sono i ‘grazie’ che arrivano dopo anni dagli studenti, magari ragazzi che quando ho visto la prima volta non sapevano una parola d’italiano e adesso si sono integrati, hanno moglie e figli e un lavoro rispettabile. Mi piace pensare di aver fatto qualcosa di buono per lui”.
Qual è stata la cosa più bella che la ha detto uno studente?
“Sicuramente ‘prof, lei è il migliore’. Mi è capitato sia nella vita reale sia al ‘Collegio’. Certo, nella realtà mi ha fatto più piacere”.