Milano, 30 novembre 2019- «Dare un riconoscimento legale alla dissociazione» dalle mafie «è una finzione, non ci credo, non è possibile. Ho timore di una riabilitazione virtuale». Torna a ribadire il suo scettiscismo il capo dell’Antimafia milanese, il procuratore aggiunto Alessandra Dolci. «Nei giorni scorsi è arrivata nel mio ufficio una lettera di un soggetto che sta espiando la pena per associazione mafiosa e che scriveva “ammetto tutti i fatti, ammetto la mia associazione alla ‘ndrangheta dalla quale mi dissocio, ho 4 figli e devo pensare a loro e l’organizzazione non potrà più contare su di me”. E io dico bene, ma mi chiedo anche sarà veritiera? O è una strumentalizzazione?».
Dolci è intervenuta ieri a un convegno a Palazzo di giustizia sulla recente sentenza della Consulta che ha “aperto” ai benefici carcerari anche per gli ergastolani che non collaborino con la giustizia. Anche loro, a determinate condizioni e sempre dopo la valutazione di un magistrato, avranno la possibilità di permessi premio, come del resto già avveniva per alcuni ergastolani nei casi in cui la collaborazione era ritenuta “impossibile“. Anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha dato una spallata all’ergastolo “ostativo” cancellando l’automaticità dei meccanismi. Ora, sostiene Dolci che ricorda la sua «esperienza ventennale» nel contrasto alla ‘ndrangheta, si gira pagina. «Dovremo far fronte» alla nuova situazione, «che comunque credo avrà effetti meno dirompenti di quelli prospettati. Dovremo attrezzarci e il giudizio sulla rescissione dei legami mafiosi di chi chiederà i permessi premio dovrà essere reale, effettivo, concreto. Chiedo solo questo».
In questa direzione, del resto, le parole del presidente del tribunale di Sorveglianza Giovanna Di Rosa. «I boss mafiosi al 41 bis non sono minimamente toccati da questa nuova possibilità –spiega – e per il resto la magistratura di sorveglianza è del tutto attrezzata ad affrontare un giudizio individuale sulle richieste di altri soggetti». Giudizio che non si baserà, aggiunge, solo sull’assenza di provvedimenti disciplinari nel corso della vita carceraria, ma anche sulla partecipazione attiva di quelle persone alle attività trattamentali, che dovrà essere testimoniata dall’equipe del carcere. E poi,conclude Di Rosa, quelli di sorveglianza sono «magistrati come gli altri, pronti ad assumersi gli stessi rischi e a prendersi le stesse responsabilità».