
Il sociologo Davide Arcidiacono
Milano, 14 novembre 2020 - «Smart working è un termine abusato. Quello che abbiamo sperimentato con la pandemia e fino ad oggi è più un remote working o un home working o - con un termine anni ’90 - si potrebbe chiamare telelavoro", sostiene Davide Arcidiacono, ricercatore in Sociologia dei processi economici e del lavoro all’Università di Catania e docente alla Cattolica di Milano.
Cosa c’è alla base di questo malinteso? "Lo smart working è una filosofia manageriale. Vanno ripensati gerarchie, tempi, processi e ci sono questioni normative da affrontare".
In che senso? "La legge 81 del 2017 presuppone che non si possa fare smart working senza l’accordo tra le parti. La fase emergenziale ha giustificato una transizione in buona parte coatta. Oggi è una misura necessaria per garantire la sicurezza e ha una funzione diversa per natura da un reale smart working".
Il Covid-19 dà un’accelerata. "Secondo i dati Eurostat, prima della pandemia in Italia lavorava in smart working in maniera stabile solo il 3.6% rispetto a un 10-15% raggiunto nei Paesi Bassi, in Svezia, Finlandia e Lussemburgo. Eravamo fanalino di coda. C’è stata la tendenza a non investire su questa forma di lavoro negli ultimi 10 anni, fino alla pandemia quando si sono raggiunte punte del 90% col lockdown. Un cambio di paradigma anche se non è così ovunque".
C’è un’Italia a due velocità? "Prima della crisi pandemica, nelle grandi aziende poco più del 56% aveva avviato percorsi di smart working. Nelle piccole e medie imprese eravamo al 12%, nella pubblica amministrazione intorno al 16%. E ci sono divari fra Centro-nord e Sud, più legato a settori tradizionali, meno informatizzati, e con una concentrazione di piccole e piccolissime aziende".
Ci sarà più “south working”? "È una narrazione che ha il suo fascino ma va ridimensionata, richiederebbe infrastrutture digitali forti e diffuse, di cui il Sud e alcune aree interne sono ancora sprovviste, per non parlare di competenze e alfabetizzazione digitale".
Smart working e produttività: altro tabù? "Uno studio della Bocconi dimostra quanto chi lavori in smart working sia più produttivo e motivato, conciliando meglio vita privata e lavoro. Ma c’è l’altra faccia della medaglia".
La sindrome della grotta? "La scarsa relazionalità e il rischio isolamento sono tra i punti deboli elencati dai lavoratori, che a volte hanno percepito un indebolimento professionale, un percorso di carriera più difficile. Tuttavia, uno studio della Luiss su un campione di lavoratori in remoto durante la pandemia, dice che il 75% sia disposto a continuare a lavorare in smart working più giorni alla settimana. C’è terreno fertile".
Quali sono le prospettive? "Non si torna indietro. Aumenterà la percentuale di lavoro agile. Ibridazione è la parola d’ordine. Questo introduce problemi, da quelli sindacali alla cyber security, fino al dibattito su quanto uno smart working dominante possa mettere in crisi città come Milano. Ci sono interi eco-sistemi urbani da reinventare".