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L’impressione è che abbia sempre fatto quello che ha voluto. Di quanti lo si può dire? Certo pagandone un prezzo. Storia di cicatrici e di capolavori quella di Abel Ferrara: "King of New York", "Il cattivo tenente", "Fratelli", il bellissimo "Tommaso", qualche anno fa. L’ultimo progetto riguarda Padre Pio, poi arriverà un doc sull’Ucraina. Ma intanto stasera all’Anteo Palazzo del Cinema si rivede "The Addiction" per La Milanesiana di Elisabetta Sgarbi. Dalle 21 il corto "Molly Bloom" firmato da Chiara Caselli e la poesia di Gabriele Tinti. Poi spazio al regista newyorkese, a cui verrà consegnato il Premio Omaggio al Maestro. Proprio lui. Che nel 1995 metteva a soqquadro la metropoli riempiendola di simbolicissimi vampiri. Una parabola. Cult. Dal finale indimenticabile.
Abel, com’è rivedere «The Addiction» dopo tanto tempo?
"Lo adoro. È meravigliosa la sceneggiatura di Nicholas St. John, altro italiano come me. Un film fatto per amore, con queste parole bellissime, che sembravano luccicare. Eravamo giovani, coraggiosi. Credo sia stata anche una scelta giusta girare in bianco e nero su pellicola 35mm. Certo rappresenta bene quel periodo della mia vita. Ne sono orgoglioso".
È un lavoro anche molto critico nei confronti della società del tempo.
"Sì e credo che quest’aspetto diventi sempre più rilevante. Perché basterebbe inserire delle foto dell’Olocausto o di quello che sta accadendo in Ucraina per ottenere lo stesso risultato. Come se si parlasse sempre dello stesso affare".
Che ricordi ha di quegli anni?
"Il cinema indipendente stava emergendo a New York: Jim Jarmusch, Spike Lee, i fratelli Coen. Insieme al grande nonno John Waters. C’era tantissima qualità, un periodo fantastico. Specie i primi Anni Novanta, fino a metà del decennio".
Poi?
"E poi improvvisamente tutti volevano Hollywood, volevano fare i soldi". Il suo lavoro invece come è cambiato nel tempo? "Continuo a credere nel cinema e a progettare nello stesso modo, a prescindere dai soldi. Cerco di avvicinarmi alle cose per le giuste ragioni, che arrivino poi dei benefici o meno. I miracoli però ogni tanto accadono".
Cosa non le piace del cinema?
"In qualsiasi situazione c’è del buono e del cattivo. Tu sei lì e devi trovare il tuo modo, la tua strada. È un qualcosa che indago dal 1968. Perché le prime cose al cinema io li ho fatte a 16 anni! Mi butta giù pensare che ora siamo già nel 2022… Il cinema non è mai stato facile ma tutti ci devono fare i conti. Fa parte della sfida. È il punto dove definisci te stesso".
Come vive queste serate?
"Non è un qualcosa di cui sento il bisogno ma lo accetto e sono molto felice che venga proiettato il film, che le persone si riuniscano per vederlo. Mi sento parte di tutto questo. Poi sai, io in questi momenti rappresento un gruppo di persone, è un riconoscimento che riguarda tutti quelli che hanno lavorato con me. Perché fare un film significa interagire con una squadra e con il pubblico. Inoltre vedo l’appuntamento di stasera come la celebrazione dell’arte in un mondo che sta per esplodere, sull’orlo di un olocausto nucle are. Questi sono atti rivoluzionari".
Cosa intende?
"Ci si incontra per discutere di cinema, per ragionare d’arte. Si festeggia la vita di fronte alla morte".
Perché un film su Padre Pio?
"Si lega a mio nonno che nacque negli stessi anni a Sarno, vicino a Pietrelcina. Credo che questo mi abbia permesso di comprendere il personaggio: qualcuno connesso con quella campagna, il territorio fra Napoli e Salerno, in un preciso periodo storico. E poi il viaggio, la prima guerra mondiale. Storie simili che ho provato ad osservare in profondità. Sotto pelle ritrovi temi fondamentali insieme a una grandissima spiritualità".
Ma com’è alla fine questo suo rapporto con l’Italia?
"Ormai ci vivo. Non è una pausa. Potrei venire a lavorare nel tuo giornale. Mi sento come un soldato dell’esercito di Cesare, un mercenario al suo servizio. E ne sono innamorato".
Nei prossimi mesi?
"Ho intenzione di andare in Ucraina per un documentario. Sento di doverlo fare".